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Che barba che noia

BF8OIW65Diceva Sandra a Raimondo in una delle scene clou di Casa Vianello. Beh, in casa PD non è che le cose vadano meglio, e comunque al confronto di ieri sera le parole di Sandra si adattano bene. Qualche frecciata qua, un paio di stoccate là, il solo Emiliano che randellava l’ex segretario e così lo sbadiglio ha preso il sopravvento.

Qualche considerazione di merito.

Se fossimo un Paese normale, Renzi nemmeno si sarebbe dovuto ripresentare a questo congresso. E sempre se fossimo un Paese normale (al secondo se si ha già la certezza che NON lo siamo affatto) Renzi non avrebbe alcune chance di vittoria. Da un lato propone soluzioni per i mali del Paese manco venisse da Marte su un carro piombato (grazie Baffino!) e quindi come se non fosse stato Presidente del Consiglio per tre anni. Dall’altro rivendica come successi (il jobs-act, la buona scuola, la mancata riforma della Costituzione, solo per citarne tre) quei provvedimenti sui quali la maggior parte degli italiani, tra elezioni amministrative e referendum, gli hanno fatto capire che il rapporto con il Paese s’è spezzato. Perseverare sullo stesso registro mi sembra davvero poco lungimirante e politicamente la strategia porterà il PD a schiantarsi, ma che dire, contenti gli iscritti del PD che gli hanno dato fiducia nelle convenzioni, vedremo domenica che succede.

Come dicevo Emiliano ha randellato Renzi come un fabbro e bisogna riconoscergli la qualità di essere una persona che non le manda a dire. Da un punto di vista politico immagina un PD diametralmente opposto a quello Renziano: tassazione, ambiente, sicurezza, scuola, poteri forti, protezione delle fasce deboli della società, alleanze sono gli argomenti sui quali Emiliano ha disegnato un PD molto spostato a sinistra. Proprio queste profonde differenze mi fanno chiedere come sia possibile la convivenza, dopo il 30 aprile, di due persone che evidentemente non nutrono un minimo di stima reciproca e entreranno in conflitto permanente, visto che Renzi chiede accondiscendenza agli sconfitti ed Emiliano non ha alcuna intenzione di mettere in campo una opposizione soft al segretario.

In mezzo c’è Orlando. Anche lui immagina un PD più spostato a sinistra rispetto a quello renziano e si prefigge l’obiettivo di rifare il centrosinistra chiudendo ad ogni possibile larga intesa. Non mi sembra che tra Orlando e Renzi corra buon sangue, si sono rinfacciati l’un l’altro un bel po’ di vicende passate e recenti e credo che dal mese di maggio la convivenza non sarà idilliaca.

Tra le affermazioni che mi hanno più colpito: la svolta da sceriffo di Renzi che vorrebbe gli italiani armati per difendersi in casa loro (aberrazione assoluta) e sempre Renzi che proclama il successo delle primarie se si supera il milione di votanti. Considerando i 3 milioni circa delle altre tornate, una perdita di un paio di milioni di persone mi sembrerebbe tutt’altro che un successo. Ma a lui, dopotutto, del popolo delle primarie importa qualcosa? Ha pronunciato a profusione la parola noi, noi, noi, ieri sera e in questa campagna. Mi sembra che la sua storia di questi anni smentisca nei fatti l’esistenza del concetto di squadra. Di partito. Di comunità. Esiste il capo. Me, myself and I. Dopo di me il diluvio.

Agli amici del PD che ancora ci credono, buone primarie.

Bravo Renzi (pare vero)

Spinto da quell’istinto masochistico che probabilmente alberga in ciascuno di noi e che chi ha militato per anni nel PD ha ben coltivato (le tossine, si sa, ci mettono un po’ ad essere espulse dal corpo), ieri tornando dal lavoro in macchina mi sono sintonizzato su Radio Radicale e ho ascoltato un pezzo del dibattito della Direzione PD. Dall’intervento di Speranza in poi, diciamo. Non che siano mancati momenti di puro piacere, ascoltando la querelle sulle mozioni da mettere ai voti, dibattuta in punta di diritto e con gran sfoggio di sapienza statutaria, peccato che in punta di fatto ‘sto povero statuto se lo sono messo sotto i piedi innumerevoli volte. Vabbè, acqua passata, almeno per me.

Alla fine della fiera, però, la sensazione che ho percepito, da spettatore esterno, è la seguente.

Renzi è un mago. Lo dico senza ironia. E ancora una volta, come si dice a Roma, se li è messi tutti in saccoccia. Volete il congresso? Eccovelo. Lo facciamo subito. Sarà un rito abbreviato. Sarà una gazebata. Ma sarà un congresso.  E nella sua frase “lo facciamo con il sorriso” ci sta tutta la consapevolezza che stavolta non ci saranno prigionieri. Ed in fondo è giusto così. Che senso ha chiedere il congresso, partecipare ad un dibattito, presentare proprie candidature per poi continuare a spaccare i maroni al Segretario e alla sua maggioranza, una volta che tutto è finito?

Qui non si tratta semplicemente di dialettica interna ad un partito, che vivaddio è sempre la benvenuta. La scissione da molti evocata, per il futuro, è evidente nel presente e trova le sue origini nel recente passato. Ma se la scissione nel “popolo di sinistra” è sotto gli occhi di tutti da tempo (problema che riguarda tutti, non solo il PD, sia chiaro) per i motivi che ieri vari interventi hanno sottolineato, dovrebbe essere ancora più evidente la scissione che Renzi ha messo in atto con le aspirazione, le idee, le proposte di molti dei suoi oppositori interni che con ottusa pervicacia ancora pensano di poter indirizzare verso lidi diversi il PD a trazione renziana.

Renzi vincerà il congresso a mani basse, e il PD resterà il partito del jobs-act, della buona scuola, delle trivelle. Il partito che preferisce non far tenere i referendum della CGIL e che sceglie Macron anziché Hamon. Che in passato ha scelto le tecnocrazie europee anziché Tsipras e la sua idea di Europa diversa.  Il Partito che dice NO alla patrimoniale e al reddito di cittadinanza (#giannistaisereno). Con buona pace di tutti. E gli oppositori interni si stanno mettendo alla berlina da soli. Logorandosi nel dilemma di morettiana memoria (mi si nota di più se mi scindo adesso o se mi metto da parte e mi scindo dopo) e nel frattempo perdendo credibilità oggi, in un dibattito infinito, o perdendo ancora più credibilità domani, se magari andranno via dopo essere stati asfaltati al congresso. Insomma, ieri Renzi ha vinto, almeno questa partita.

Certo però a mio avviso Renzi ha anche già perso la guerra, sia chiaro. L’ha persa perché è stato colto dalla solita sindrome di cui soffrono i megalomani, ossia quella di legare i destini di una comunità politica, ed anche di un intero Paese, con i propri. Dopo il governo Letta, anche il governo Gentiloni ha le settimane contate, e con il suo sarà il terzo governo a trazione PD che il Segretario fa cadere nell’arco di una legislatura. Le conseguenze, ovviamente, le pagheremo tutti.

Florence hold’em

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Quello del sindaho non può che essere un bluff, bro’. Le minacce di andare a votare subito non possono che cadere nel vuoto. Alzare la posta con il governo Letta, arrivare al riequilibrio (non chiamatelo rimpasto, mi raccomando) tanto atteso e provare ad incidere sull’agenda politico-economica del Paese. Nel frattempo mettere nero su bianco il jobs-act e tirar fuori uno straccio di testo per la riforma del titolo V e capire cosa si vuol fare del Senato. Che poi, tra l’altro, che riforma elettorale fai se non si sa cosa ne sarà del Senato? Perché Napolitano non scioglierà le Camere tanto facilmente. E poi, tornare a votare con il proporzionale puro e le preferenze costringerebbe anche Renzi ad allearsi con pezzi di centrodestra, così come se decidesse di provare a diventare premier subito, senza passare dalle urne. E dopo la campagna delle primarie, sarebbe la più grande bugia da non perdonare, mai più.

Congelatore o graticola?

Ieri ero a Milano, all’Assemblea Nazionale. Con tanti compagni di viaggio, ed è stato bello ritrovarci lì. È stato bello anche incontrare quelli che mi sono (ci siamo) perso per strada. Percorsi politici differenti ma la stima personale resta immutata.

Era la giornata del segretario, e Renzi si è preso il palcoscenico. Giusto così. Tante speranze, tante aspettative. Un discorso di un’ora e venti molto evocativo, poco concreto. Moltissime cose da fare, alcune bellissime. Ma come farle non è che sia stato proprio chiarito. Lasciate fare a me è un metodo di lavoro che ho già sentito da qualche parte, e non è che sia andata proprio bene.

Vedremo.

Completamente assente, nelle parole di Renzi, la forma-partito. E non è un caso che in Direzione Nazionale non sia stato chiamato Fabrizio Barca.

Forse le uniche cose concrete di cui ho sentito parlare sono state la trasformazione del Senato in camera delle Regioni e la richiesta di mettere al centro dell’attenzione, quale punto qualificante dell’accordo con il NCD per il prossimo anno-anno e mezzo (si passa dalle larghe intese al governo di coalizione, sigh!), il tema delle civil partnership (sappiate che quando si utilizzano termini anglosassoni vi vogliono fregare). Due cosucce da niente che porterebbero dritti dritti al voto (ve li immaginate Giovanardi, Formigoni, Cicchitto che dicono si al riconoscimento di un diritto che sia uno?),  con buona pace dell’asse con Enrico Letta (si vis pacem para bellum diceva qualcuno), che sarà messo sulla graticola a fuoco alto,

Del resto, se lo può permettere, Renzi, di restare un anno a guardare un governo del  non-fare, messo in congelatore mentre qualcuno, e potete giurarci, medita vendette?

Cantare con i piedi a terra

Non starò a menarmela più di tanto con analisi politologiche, anche perchè non è il mio mestiere. Ma al netto della soddisfazione per il risultato del centrosinistra (esiste ancora nei comuni, sapete?) e del PD, e della gioia infinita per aver cacciato dal Campidoglio i fascisti e il peggior sindaco che Roma ricordi (oltre Giubilo, oltre Carraro), occorre restare con i piedi per terra. Perchè l’astensionismo raggiunge livelli record (secondo alcuni, tipo D’Alimonte, è un bene, sintomo di consapevolezza e democrazia), e perchè, sostanzialmente, non c’erano avversari “politici”. Bene i nostri amministratori, che dimostrano ancora una volta che c’è una classe dirigente locale capace e apprezzata dai concittadini (poi magari vanno “a Roma” e si perdono, sigh). Spesso scelti con le primarie, che vanno tutelate e valorizzate come meritano. Però, davvero, non avevamo avversari (lo dice anche Makkox, a modo suo). Nel senso che laddove il centrodestra si presenta con le facce (pessime) dei propri amministratori e non con il faccione del cavaliere in prima persona, non riesce più a racimolare risultati (stesso discorso per la Lega sgretolata). E questo dovrebbe far pensare, nel PD, perchè se il PDL sta sopravvivendo, in questa fase politica, lo deve essenzialmente a noi. Teniamo in vita un cadavere sempre pronto a farci la pelle, appena si riprende un pò (e grazie ai nostri errori). Che altro dire: i commenti davvero fuori luogo sono quelli di Enrico Letta, che attribuisce ai cittadini l’intenzione di rafforzare l’intesa PD-PDL, quando in nessuna città nelle quali si è votato il PD si presentava con il PDL, per dire. O chi vede nel risultato di giugno la rivincita di febbraio. Rivelando superficialità d’analisi. O, peggio, malafede. Affinchè tutto resti com’è. Per evitare di discutere di temi: lavoro, ambiente, energia, scuola, welfare, trasporti. Davanti alle parole dei vertici del PD, sempre uguali a se stesse, emerge con sempre maggior forza la necessità di un congresso vero.

L’interesse del Paese

Nasce il governo Letta. Il primo governo politico PD-PDL. Sarà un governo di legislatura. Troppo ambiziosi, nella loro vaghezza, i punti programmatici per pensare ad una durata inferiore. Nessuno ha parlato di emergenza, parole usate all’epoca delle formazione del governo Monti. Ciò lascia presagire un cambio di pelle del PD, che da forza di centrosinistra ancorata nella tradizione del socialismo europeo rischia di diventare una forza strutturalmente centrista e iper-moderata, l’esatto contrario di quanto abbiamo pensato di costruire con la fondazione del Partito Democratico. Una forza che fa delle larghe intese il suo stesso motivo di sopravvivenza. Fateci caso, nessuno parla più di mettere in campo politiche bipartisan per risolvere problemi specifici, per poi ri-confrontarsi  in una nuova tornata elettorale nella quale ciascuno si riappropria del suo specifico ruolo e si contrappone all’altra parte. Nulla di tutto ciò.

Non voglio ripercorrere le vicende che hanno portato alla formazione di questo governo. Dico solo che nella testa di molti, a partire dai 101 traditori ma non solo nella loro, si voleva arrivare esattamente a questo. E a questo si è arrivati.

In questi giorni nelle parole di molti si fa appello alla responsabilità, in virtù della quale si dovrebbe mettere da parte l’interesse di bottega (ossia del PD) per considerare l’interesse del Paese. Sono questioni collegate. Vorrei difatti capire quanto l’evoluzione (o, meglio, l’involuzione) del PD, che diventa una sorta di Democrazia Cristiana del terzo millennio, corrisponda all’interesse del Paese. Non parlo dell’interesse degli elettori del PD, ma dell’interesse del Paese.

Dicevamo del programma del governo Letta. Tanto generico quanto ambizioso e privo di coperture finanziarie per la rimodulazione/soppressione/restituzione dell’IMU piuttosto che per compensare il mancato aumento dell’IVA. Ma su questo possiamo stare tranquilli: piena continuità con il governo Monti, sacrifici per i soliti, tagli alle spese degli enti locali che si tradurranno in tagli a servizi ai cittadini. Una rivoluzione copernicana, senz’altro. In definitiva, ad oggi, gli otto punti di Bersani sono un pallido ricordo e il PDL gongola visto che il programma di governo si fitta in moltissimi punti al loro (Alfano: “Le parole di Letta sono musica per le nostre orecchie”).

Alcune delle priorità indicate dal PD in campagna elettorale, seppure in maniera ondivaga, sparite. La dico meglio: alcune delle priorità per il Paese sulle quali per anni gli elettori di centrosinistra e del PD in particolare hanno chiesto al Partito Democratico in particolare parole chiare e soluzioni definitive sono sparite.

Faccio qualche esempio.

Parliamo di conflitto di interessi. Per anni abbiamo usato l’argomento del conflitto di interessi come una clava contro Berlusconi. O meglio, abbiamo minacciato di usare l’argomento del conflitto di interessi come una clava contro Berlusconi senza mai muovere un dito. Di contro il PDL ha da sempre fatto quadrato attorno al suo Capo per difendere l’indifendibile, ossia il conflitto di un operatore economico, il più importante del Paese, che si è inventato politico minacciato di dover vendere le sue imprese o quantomeno di sciogliere l’intreccio tra politica e affari (suoi), come si fa in ogni paese civile. Ma nel nostro Paese il conflitto d’interesse non è solo Berlusconi. Per usare un termine di moda in questi giorni, quanto catoblepismo c’è nella struttura, nel corpo economico e sociale del nostro Paese? Prendiamo la commistione tra politica e fondazioni bancarie. La politica che attraverso le banche continua a garantire gli interessi di ristrette oligarchie e di imprenditori amici (capaci o incapaci fa lo stesso) piuttosto che essere da sprone affinché gli operatori economici sani, i giovani che vogliono fare impresa, le aziende che investono in ricerca e innovazione abbiano un più agevole accesso al credito. È conflitto di interessi, questo? Oppure: la presenza della politica nell’amministrazione della sanità, il vero buco nero delle regioni che riversano sullo stato i debiti e sui cittadini le inefficienze: il danno e la beffa. È conflitto di interessi, questo? Potrei continuare con altre vicende delle quali si è occupata L’Antitrust (ancora banche, e poi assicurazioni, carburanti, energia, telefonia, farmaci) e che segnano in maniera drammatica la condizione di arretratezza del nostro Paese che non sa e non vuole regolare conflitti che incidono sulla carne viva dei cittadini, tolgono risorse agli investimenti e ai consumi,  ingrassano spessissimo imprenditori incapaci, contribuiscono a mantenere in vita un diffuso parassitismo e a perpetuare il potere di chi già ce l’ha. Sarà in grado di sciogliere questi nodi il governo Letta? Ma secondo me nemmeno ci proveranno. È interesse del Paese, questo?

 Altro esempio. Parliamo di giustizia. Sono anni che si discute circa la necessità di riformare la giustizia, soprattutto quella civile, per dare certezze a cittadini ad imprenditori. Sono anni che ci si lamenta della lentezza del processo penale (salvo poi adottare tecniche dilatorie nei processi in cui si è coinvolti piuttosto che approvare leggi che, di fatto, tendono a far morire i processi per prescrizione. Ma questa è un’altra storia. Anzi, è storia). Al netto dei tecnicismi nei quali non mi addentro perché non sono un esperto del settore, credo che salti all’occhio immediatamente la necessità di mettere a disposizione della giustizia più risorse economiche. Per l’informatizzazione. Per l’assunzione di personale amministrativo che assicuri una più ampia calendarizzazione dei processi (per svolgere un’udienza servono i magistrati a anche i cancellieri, gli uscieri). Per la carta. In questi anni abbiamo assistito a tagli su tagli anche nel comparto della giustizia, e non parlo appositamente delle manifestazioni sotto i palazzi di giustizia o delle accuse alla magistratura di essere cancro e mafia nello stesso tempo. Avrà la capacità, ma soprattutto la volontà, di reperire risorse per efficientare la macchina della giustizia nel suo complesso piuttosto che continuare ad operare con tagli orizzontali, il governo Letta? Secondo me, no. È interesse del Paese, questo?

Altro esempio. Parliamo di ambiente. In senso lato. Con una piccolissima premessa: la scelta di Andrea Orlando al ministero dell’Ambiente è avvenuta in piena continuità con i metodi del passato. Quando si dice cambiamento. Nessuna competenza sulla materia e distribuzione di un posto ad una corrente del partito. Non male, davvero, considerando che il PD aveva escluso dalle liste di Camera e Senato Roberto della Seta e Francesco Ferrante, due esponenti eco-dem che nella passata legislatura si erano dati davvero da fare, su temi ambientali. Dicevamo ambiente in senso lato. È necessario continuare a consumare suolo, soprattutto nelle grandi città, per continuare a costruire case che nessuno compra e nessuno abita, case che finiscono per essere garanzia per le banche che hanno erogato prestiti per la loro costruzione? E intanto i soldi girano, e i costruttori sono sempre gli stessi, con i loro amici nella politica con i quali si garantiscono a vicenda ciascuno la propria sopravvivenza? È possibile parlare di abusivismo edilizio e recupero del territorio con chi ha fatto dell’abusivismo (non sto parlando di contrasto, eh) un cavallo di battaglia della campagna elettorale in una delle regioni maggiormente devastate da un fenomeno di illegalità tanto diffuso? È possibile parlare di mobilità sostenibile in luogo di infrastrutture faraoniche inutili? È possibile parlare di come salvaguardare realtà industriali tipo la IrisBus che potrebbero continuare a vivere producendo mezzi pubblici eco-compatibili se solo i Comuni fossero incentivati a rinnovare il proprio parco-vetture? È legittimo nutrire qualche dubbio su come si muoverà, su questo terreno il governo Letta? È interesse del Paese, questo?

Ulteriore esempio. I diritti. Degli immigrati. Delle coppie omosessuali. Delle coppie che desiderano un figlio. In Italia vige ancora la legge Bossi-Fini, e con tutta la stima per il Ministro Kyenge non credo basterà la sua presenza per cancellarla. In molti paese del mondo si moltiplicano provvedimenti di legge che consentono il matrimonio tra persone dello stesso sesso, che in questo modo acquisiscono medesimi diritti e doveri delle coppie eterosessuali. Provvedimenti che sanciscono uguaglianza e che non vanno in alcun modo a ledere i diritti e i doveri di chi non beneficerà di tali norme. Provvedimenti che rendono la società in cui viviamo semplicemente equa e capace di valorizzare le differenze, in un’ottica di benessere per tutti.  In sede di corte di giustizia europea, ma anche ricorrendo al sistema giudiziario italiano si moltiplicano le sentenze che sanciscono l’illegittimità della legge 40 sulla procreazione assistita. Una legge talebana che impedendo la diagnosi pre-impianto nega la possibilità di una maternità e paternità matura e consapevole a coppie in difficoltà, riducendo la donna ad utero vivente piuttosto che a madre. È un azzardo pensare che il governo Letta non metterà mano ad alcuno di questi problemi? ? È interesse del Paese, questo?

E infine, come si muoverà il governo Letta nella soluzione di crisi industriali in settori strategici (penso all’acciaio e al suo indotto) che soffrono non per l’incapacità di produrre beni di qualità ma per la delocalizzazione che mortifica le professionalità, toglie dignità ai lavoratori in un’ottica di puro profitto. Avrà la volontà di salvaguardare il lavoro e i lavoratori oppure dirà: è il mercato, baby? È interesse del Paese, questo?

Potrei continuare, ma mi fermo qui. Dico solo che nella drammaticità delle vicende politiche delle ultime settimane, degli ultimi giorni, sono emerse tutte le contraddizioni di un partito mai davvero nato perché non è mai stata definita la direzione da intraprendere, il progetto per il Paese, la visione della società da costruire da qui a vent’anni, per noi e per i nostri figli.

È ora di fare tutto questo. In un congresso che deve essere fondativo del PD. C’è chi dice che il PD, invece, deve essere ciò che sta diventando nelle ore del governo di larghe intese. Un partito fatto per collaborare a lungo termine con chi, fino a pochi giorni fa, era del tutto incompatibile con la nostra storia. E che in quest’ottica tradisce il suo manifesto dei valori. Legittimo. Ci confronteremo. E si capirà, finalmente, cosa dovrà essere il PD.

Noi ci saremo.

Il partito nè-nè

L’analisi di Ilvo Diamanti, su La Repubblica di oggi. Il PD non riesce a liberarsi di Berlusconi….

…anche e soprattutto perché il Pd non è mai riuscito ad affermare una propria, specifica, identità. È un partito né-né. Né socialdemocratico né popolare. Semmai post. Dove coabitano, senza amore, postcomunisti e postdemocristiani (di sinistra). Un partito im-personale. Che utilizza le primarie per selezionare leader poco carismatici e lasciar fuori quelli più pop (olari). Un “partito ipotetico”, ha scritto Eddy Berselli nel 2008. Rassegnato a perdere, anche quando vince – o quasi. Perché coltiva il mito della sconfitta –  e dell’opposizione. In fondo, anche Berlusconi, per il Pd e la Sinistra, è un mito. Negativo, ma non importa. Perché i miti, si sa, non muoiono. Per non morire berlusconiani, dunque, non c’è alternativa. Occorre costruire un’alternativa: “senza” Berlusconi. “Oltre” Berlusconi. Solo a questa condizione è possibile sopravvivere a Berlusconi. Il Pd, per questo, deve cambiare in fretta. Individuare e comunicare una propria, specifica identità. Con poche parole e una leadership forte. Prima delle prossime elezioni. Non gli resta molto tempo.

Due strade per arrivare alla Terza Repubblica

Beh, adesso non ci sono più alibi, davvero. il tempo delle scelte è arrivato. M5S ha reso noti i nomi dei loro candidati per la Presidenza della Repubblica. Gabanelli, Strada, Rodotà, Zagrebelsky. E poi gli altri. Il PD, avvitato nelle solite alchimie da Prima e Seconda Repubblica, ha la possibilità di contribuire a far entrare il Paese nella Terza Repubblica, se lo vuole davvero. Certo, sarebbe stato meglio essere parte attiva del gioco, piuttosto che subire scelte fatte da altri. Ma sarebbe chiedere troppo al PD attuale. A questo punto c’è ancora una possibilità. Anzi due. Il PD proponga dal primo scrutinio di votare Rodotà (Gabanelli e Strada hanno “declinato”, non credo che sarebbe per M5S un problema votare da subito Rodotà). In alternativa, in un momento di ritrovato orgoglio (non ci facciamo imporre il candidato da Grillo!! Ahahahaha), PD, SEL e chi ci sta eleggano al quarto scrutinio Romano Prodi. Qualunque altra soluzione (al di là dei nomi, e sfido chiunque a dire che Rodotà o Prodi non sarebbero garanti della Costituzione, dell’unità del Paese, delle minoranze e chi più ne ha più ne metta) concordata con il PDL non farebbe che alimentare ulteriormente il sospetto di una partita giocata da Bersani per continuare a sperare in un governo presieduto da lui stesso. E, in queste condizioni, sarebbe una catastrofe per tutti.

p.s. personalmente propendo per la prima ipotesi

L’impossibile che diventa possibile

A questo punto, probabilmente, qualcuno inizierà a sostenere che Bersani parlasse a titolo del tutto personale quando ribadiva il suo #mai ad un governo con il PDL. Altrimenti un bel pò di persone dovranno spiegare come sia possibile ipotizzare e attuare, senza Bersani, ciò che era nè ipotizzabile nè attuabile, senza Bersani. Tempo fa, nemmeno troppo, scrissi di persone pronte a brutalizzare il segretario (nel senso di tu quoque Brute). Appunto. Ce ne sono un bel pò, in giro.