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Storia di tradizioni, di sapori e di sentimenti

Questa storia parte da qui.

Anzi no.

Questa storia parte materialmente da Valledolmo, in provincia di Palermo. Ma ha una genesi molto più profonda, che ha a che fare si con la terra, ma soprattutto con le radici dei sentimenti. E se avrete la pazienza di leggere, qualcosa lo intuirete.

La materia prima

Dicevamo, Valledolmo, provincia di Palermo, dove viene coltivato il pomodoro siccagno. Se ne volete sapere di più guardate qui.

Il primo pensiero va a chi raccoglie il pomodoro. La fatica che sa fa a spaccarsi la schiena noi comuni mortali, fortunati a non dover fare lavori manuali massacranti per campare, possiamo solo immaginarla. E quindi tutto il mio rispetto ai lavoratori dei campi, agli operai agricoli, ai coltivatori onesti che non sfruttano mano d’opera, che non riducono le persone in schiavitù come purtroppo ancora oggi nel nostro Paese capita troppo, troppo spesso.

Nel caso specifico un piccolo produttore locale ha fornito la materia prima, raccolta il giorno precedente l’acquisto con le sue stesse mani nelle ore più fresche (si fa per dire) della giornata.

Caricata la macchina, si torna verso casa, si scaricano i 300 kg di pomodori e si aspetta il giorno fatidico per fare la salsa (anzi i giorni fatidici, perché il giorno dopo la salsa tocca ai pelati, ma questo lo vediamo poi).

GIORNO 1 – LA SALSA

Che poi c’è un giorno -1, quello della selezione dei pomodori: quelli perfetti, senza ammaccature, senza puntini che lasciano presagire la possibilità della presenza di qualche difetto interno, destinati ai pelati. Gli altri, invece, buoni per la salsa. Su 300 kg di prodotto, lo scarto, i frutti marciti, ammuffiti, andati a male, sarà stato di un paio di kg al massimo. Quando si dice la qualità della materia prima.

Il tutto fatto da chi sa, dal capo.

Che poi c’è anche un giorno zero, che è quello durante il quale si lava il pomodoro, si asciuga per bene e si sistema nelle cassettine pronto per l’indomani.

Si parte da qui, dalla cassetta scaricata. E poi a seguire.

L’oro di Valledolmo

Lavaggio in tinozza

Lavaggio con acqua corrente

Asciugatura

Mani sapienti ripongono i pomodori, perfettamente asciutti, nelle ceste, pronti per il giorno dopo.

La deposizione

Dicevo, perfettamente asciutti. La prima cosa che si impara è che l’acqua è nemica del pomodoro, della salsa, dei pelati, del lavoro che stai facendo e della fatica che stai per compiere. L’acqua, croce e delizia della Sicilia dei serbatoi sui tetti delle case, centellinata in un regione ricca d’acqua che però non arriva alle case dei suoi abitanti, anno del Signore 2020.

E quindi, il giorno 1 sveglia alle 5.30, ancora un po’ a poltrire poi si sale in terrazza, il tempo di vedere sorgere il sole dallo spicchio di visuale che ancora consente di vedere il mare, tra le case costruite senza senso, pensate apposta da menti malate per deturpare il paesaggio, un caffè e via, alle 6.30 tutti operativi.

Prima operazione, il taglio dei pomodori. Per due motivi: eliminare eventuali imperfezioni che potrebbero sempre nascondersi all’interno, e poi per facilitare la prima cottura.

Ok, il taglio, ma come tagliare? E qui interviene la sapienza, l’esperienza, la tradizione. Di chi ha fatto questo lavoro prima di te e che a sua volta l’ha imparato dai suoi genitori, le cose belle che si tramandano, che si insegnano ai meno esperti. E tu, alle primissime armi, non puoi che farti un bagno di umiltà e ascoltare, guardare come si fa, provare a replicare l’esempio. All’inizio tra qualche cenno di dissenso, la necessità di ulteriori spiegazioni per chiarire il concetto. Poi inizi timidamente a prendere la mano, come in tutte le operazioni che seguiranno, e il silenzio diventa approvazione, e sai che stai facendo bene, allora vai, e arrivi a questo.

Il pomodoro tagliato

Che poi questo vuol dire una pentola da 30 litri nella quale ci sono una quindicina di kg di pomodori fatti diciamo a metà ma ancora belli sodi che devono, per quanto possibile, essere ridotti in poltiglia per poi essere avviati al fuoco, operazione fondamentale perché se si mettesse tutta la mappazza subito sul fuoco il calore farebbe attaccare tutto e addio salsa, invece con la prima spremitura esce quel quantitativo di polpa e di liquido che consente di procedere alla prima cottura con un po’ più di tranquillità. Allora, chinato sul pentolone ho immerso le mie mani e iniziato a spremere, e spremere, e spremere. Rimestare e spremere. Dopo cinque minuti (vabbè, sono fuori allenamento, lo so), dico 5 minuti, avevo le mani anchilosate e le braccia mi stavano per cadere e pensi alle nonne, a quelle loro braccia che pure dopo averne viste e fatte tante per decenni stanno ancora là a impastare, e pensi alle donne in generale e alle cose di fatica che spesso solo loro fanno e tu ti chiedi come fanno a farle, e insomma ti chiedi tutto questo, senti il dolore sulle tue di braccia e ti senti tanto una merda.

Detto questo, arriva fortunatamente subito l’automazione, che ha la forma salvifica di un trapano da muro al quale viene attaccata anziché una puntazza un attrezzo per impastare calce, gesso, cemento, tipo frusta di quelle che si hanno in casa per fare i dolci ma molto più grande, e il gioco è fatto. Una innovazione introdotta quest’anno che riduce la fatica fisica tanto nello schiacciare i pomodori quanto nel mescolarli nel pentolone che sta sul fuoco per non fare attaccare tutto. In questo modo, a detta di chi sa, tutto diventa una babbiata. E, vi garantisco, le mie braccia stanno ancora ringraziando.

A questo punto le cose procedono abbastanza spedite. Abbastanza. Da quando inizia a bollire l’intruglio (ciascuno fa il suo, da queste parti al pomodoro in cottura si aggiunge solo una cipolla e basta) si aspettano altri venti minuti, dopodiché si può passare alla fase successiva, ossia la spremitura con annessa separazione delle bucce.

Maxi pentola a bollire

Spremitura

Dai, chi non ha mia visto un arnese del genere in vita sua alzi la mano!

Tutto fatto? manco pe’ niente. Prima dell’imbottigliamento si rimette tutto sul fuoco e si aspettano altri venti minuti da quando la salsa riprende a bollire, venti minuti che possono essere di più o di meno a seconda di quanto è liquida la salsa. E la liquidità della salsa dipende da quanta acqua ha preso il pomodoro, e tenendo conto che da quando viene piantato il siccagno non viene mai innaffiato, basta una pioggia abbondante fuori stagione (vedi l’alluvione a Palermo e zone limitrofe di luglio) e ti ritrovi con un pomodoro molto più ricco di acqua.

Ri-bollitura della salsa

Ora si può passare all’imbottigliamento, operazione delicata prima perché bolle tutto che pare lava fusa e non ti puoi distrarre un attimo (anche le bottiglie sono riscaldate fino ad essere roventi in formo primo per sterilizzare ancora il tutto, secondo perché lo shock termico tra bottiglia fredda e salsa bollente spaccherebbe la bottiglia e immaginate il macello) e poi perché fare casini dopo tutta la fatica sarebbe davvero un peccato. Prima di versare, però, non ci si può dimenticare una fogliolina di re basilico, il re degli aromi per il principe pomodoro, connubio inscindibile del mangiare semplice ma con un gusto indimenticabile.

Re basilico

Imbottigliamento

A questo punto che fine fanno le bottiglie? Da queste parti dice che si fa la salsa ammantata. Che vor’ di’? Che le bottiglie roventi si mettono sotto le coperte, al caldo, protette da qualsiasi spiffero d’aria, dove la salsa continuerà la sua cottura fino al naturale raffreddamento.

Le bottiglie ammantate

A questo punto si sono fatte le 17.30, 11 ore circa di lavoro continuo, pausa pranzo sul luogo di lavoro a base di arancina, pezzi di tavola calda, birra attorronata. La tradizione vuole che fitusi  per come si è si vada direttamente a mare per un bagno, e le tradizioni vanno rispettate. Così dritti dritti a mare, per un bagno ristoratore, e vi assicuro che dopo ore e ore in piedi la sensazione di mancanza di peso che si ha in acqua, unita alla frescura del mare, è poesia allo stato puro.

Al giorno 1 manca però una cosa: si può aspettare per assaggiare com’è venuta la salsa? E certo che no. E quindi, la sera, niente di meglio di un piatto di pasta con salsa freschissima, melanzane fritte, ricotta salata, basilico.  Che ve lo dico a ffa’?

La soddisfazione della sera

Diciamo che si può andare a letto soddisfatti, stracchi abbastanza. Che domani si riparte.

GIORNO 2 – I PELATI

Levataccia ma non come il giorno prima, alle 7.30 tutti operativi.

Il lavoro è completamente diverso rispetto al giorno prima, meno faticoso ma più ripetitivo, a catena di montaggio proprio.

Sciacquare rapidamente i pomodori.

Pomodori lavati

Scottare i pomodori per poter togliere la buccia facilmente.

L’ebollizione perpetua

Pelare i pomodori e aprirli in due per togliere i semi all’interno (e controllare che non ci siano imperfezioni).

Tranquilli, non è sangue

Riempire e chiudere i vasetti (cosa viene messo nel vasetto? Il basilico, come ti sbagli?).

Sempre lui

Siam tre piccoli vasettin…

Tutto rigorosamente a mano

Vedere le file di barattoli che si popolano è fonte di immensa soddisfazione.

I soldatini

Red and Gold

Alle 13.30 la prima fase 1 è finita, le mani diventano così ma passa subito.

Non ho ucciso nessuno 2

La mano-spugna

Questa la prima fase.

Come passa il tempo, mentre si lavora? Un po’ si parla del futuro, l’anno prossimo facciamo questo e quello, si prova a capire come migliorare la produzione, quale arnese potrebbe facilitare le operazioni. Un po’ si chiacchiera del presente, di quello che stai facendo, di come lo stai facendo, ci si prende allegramente in giro per i passaggi del controllo di qualità, che ogni tanto ti ricorda come tagliare, cosa tagliare, cosa è buono e cosa no. E in fondo, nel bene e nel male tutte le attività produttive funzionano così, e il pensiero non può che andare a chi in fabbrica o in qualcosa del genere ci lavora davvero, conoscendo esattamente quello che farà il giorno dopo e il giorno dopo e il giorno dopo ancora, per anni, per la vita. Timbri un altro giorno e tiri avanti, così cantano i fratelli Severini. E poi si parla del passato, si ricordano aneddoti, storie, ma soprattutto persone: sai cosa avrebbe detto la nonna se ti avesse visto a fare ‘sta cosa? Ti ricordi quella volta che la nonna…Perché in fondo parte tutto da lì, dalle persone care che non ci sono più ma è come se ci fossero sempre, stanno da qualche parte e tu lo sai, lo senti, ed è bello e confortevole ricordare con gioia le persone della tua vita, perché è esattamente così che ci vorrebbero guardare da dove stanno.

La seconda fase del pelato consiste essenzialmente nella bollitura dei vasetti.

Pronti per essere bolliti

Si sistemano accuratamente i vasetti nei pentoloni, in maniera tale da farli muovere. Due strati intervallati da pezze che attutiscono eventuali movimenti durante il sobollimento, un disco di acciaio a coprire il tutto e un bel mattone a fare da peso, coperchio e via col fuoco. Venti minuti di ebollizione e poi una operazione delicatissima. I vasetti bollenti vanno estratti dal pentolone con una pinza e riposti in un altro contenitore con la massima attenzione perché il minimo urto potrebbe spaccare tutto. Quindi si versa l’acqua bollente nel recipiente così la cottura dei pelati può continuare. Tempo un paio di giorni e si possono togliere i vasetti dall’acqua, pronti per essere consumati. Poi vi faccio sapere come è andato il primo assaggio.

Siamo alla fine di questa storia, e magari vi starete chiedendo perché raccontare tutto questo.

Da tempo ho sviluppato una mia personale necessità che è quella di scrivere semplicemente per fissare i concetti, perché davvero inizio a perdere colpi e se non scrivo non ricordo quasi niente. Quindi se volessi replicare tutto il procedimento, trovarlo già scritto mi aiuterebbe a non perdermi pezzi. Una esigenza tutta mia e puramente materiale, se così possiamo dire.

Però poi c’è anche l’esigenza del ricordo, della memoria, del racconto, del rinnovo della tradizione, perché senza memoria del passato, senza le radici, il futuro diventa maledettamente complicato.

Un po’ di più che un post da strapazzo sui social

Un giorno forse mi verrà voglia di scrivere qualcosa di serio su questi due mesi surreali, su questo tempo duro, durissimo (ma non chiamatela guerra, grazie) che ci ha tenuto come sospesi e che ha sospeso pure la mia voglia di scrivere, di mettere in parole le sensazioni, i sentimenti, di capire meglio sé stessi semplicemente lasciando fluire i pensieri tra cervello e dita. Roba troppo grossa, per ora. Non è il tempo, ancora.

Forse per esorcizzare l’indeterminatezza della situazione ed essere più leggeri, quello strano mondo parallelo che sono i social ci hanno messi a durissima prova con quelle catene di San Zuckerberg su libri, canzoni, film. Ho fatto la mia parte, e mi scuso se ho coinvolto qualcuno che di catene e di santi proprio non vuol sentir parlare, e mi scuso pure se qualcuno moriva dalla voglia di essere coinvolto e me lo sono dimenticato. Per autocitarmi, si potrebbe davvero andare avanti all’infinito, co’ ‘ste cose.

Ciascuno di porta nel cuore i suoi libri e la sua musica e i suoi film, e nei socialgiochetti uno, appunto, ha giocato, magari provando ad associare il libro, la canzone, il film ad una o a più persone da coinvolgere nel cazzeggio. E quindi magari non sempre le scelte hanno riguardato i libri, le canzoni, i film per me fondamentalissimi.

Prediamo i film, ad esempio.

A ripensarci il primo film che ha lasciato in me una emozione profonda e che ancora mi suscita le stesse sensazioni ogni volta che lo vedo è Qualcuno volò sul nido del cuculo.

Non starò qua a fare il critico cinematografico, non ne sono capace. Ma le scene in cui Bromden rivela a McMurphy la sua normalità (“Li hai fregati tutti”), e poi Bromden che scappa via dopo aver liberato McMurphy sono, per me, poesia pura. C’è tutto, nel film: la ribellione contro il potere costituito, contro le ingiustizie, la paura del mondo, la forza del desiderio della libertà. Credo avessi quindici anni o giù di lì quando l’ho visto per la prima volta, da persona consapevole che si affaccia alla vita, e sono quelle cose che ti porti dentro, che entrano a far parte di te anche se non lo sai, ma stanno là, e quando meno te lo aspetti escono fuori e tu non puoi fare altro che prenderti quello che viene.

Prendiamo la musica, poi.

La musica fa parte della nostra vita, della mia vita (ne ho parlato qualche tempo fa qui), ascoltare musica è come respirare, credo per molti di noi. Ovvio che da bambini, da preadolescenti, qualcosa ti arriva. Inizi a condividere con i compagni delle elementari, o delle medie, qualcosa che senti in giro, per radio (sempre accesa a casa nostra), o che so, a Sanremo, e poi a DeeJay Television. A 12 anni avevo una passione smodata per Vasco Rossi e Billy Idol, dopo aver già assaggiato The Knack, I Police, i Man at Work, i Dire Straits. Avevo iniziato a far entrare Bruce Springsteen dentro la mia vita (e avrebbe scavato molto, tanto a fondo, ma questa è un’altra storia) Ma quello che mi ha fulminato in quella fantastica estate del 1985 e che ha segnato l’evoluzione dei miei gusti in fatto di musica è stato questo.

Dopo aver ascoltato l’assolo di Jimmy Page, e la batteria di John Bonham, nulla è stato come prima.

Sui libri magari ci torno.

Intanto ecco qui, magari la voglia di scrivere è tornata, magari no. Forse è solo la necessità di prendersi un po’ di tempo per sé.

Consigli di lettura

Due romanzi di Colson Whitehead che parlano di razzismo, nell’America di qualche anno fa e di qualche secolo fa. Che parlano di sistema rieducativo, di colonialismo, ma anche di redenzione e resilienza. Di resistenza e ribellione. Di orgoglio. Di solidarietà tra esseri umani che lottano per sopravvivere. Storie antiche che ci parlano anche dell’oggi, un oggi che sembra aver dimenticato le lezioni della storia e ripropone fantasmi mai scacciati via definitivamente, grazie soprattutto achi su questi fantasmi ci ha costruito intere carriere politiche.

Leggete, poi mi dite.

Cronache da Casal Bruciato

Esserci oggi, a via Satta, a Casal Bruciato, era troppo importante.

Per sancire i principi di umanità, di solidarietà, di democrazia, di legalità. Per far capire ai fascisti che, davvero, devono smetterla di impossessarsi di periferie nelle quali non vivono e che utilizzano solo per fomentare odio nei confronti delle minoranze, sempre forti coi deboli, i vigliacchi. Per far capire ai cittadini di quei quartieri che esiste davvero chi vuole dar loro una mano, oggi, e che in qualche forma l’ha fatto, fino ad oggi. E, non ultimo, per testimoniare alla famiglia rom vittima di violenze indicibili tutto il sostegno e la vicinanza possibile.

Appena arrivo a via Satta incontro Daniele Leppe, manco a farlo apposta, e mi viene istintivo andare a salutarlo e ringraziarlo. Daniele si schernisce, fa il modesto ma davvero credo che attualmente, a Roma, non ci sia nessuno nel nostro campo che come lui riesce a testimoniare l’impegno per salvaguardare, proteggere, difendere i diritti degli ultimi. Chiunque essi siano, senza distinzione alcuna. Ecco, lo dico, ma io Daniele Leppe lo vorrei Sindaco di Roma. E altro segno del destino è che con Daniele ci sia Andrea Costa, con il quale e con tutti gli amici del  Baobab sto facendo un pezzetto di strada in questi tempi.

Tempo qualche minuto è c’è una contestazione al PD. Più che al PD se la prendono con Matteo Orfini, perché del PD ci sono molti altri rappresentanti, più o meno noti ai cittadini, ma nessuno li contesta. “Fuori il PD dalla piazza”, urlano, e in effetti ad urlare sono pochi ragazzi, tutti abbastanza giovani, e la situazione è abbastanza surreale perché, come ho avuto modo di commentare a caldo appena assistito al diverbio,

Dovremmo anna’ a mena’ quelli di Casapound invece riusciamo a litiga’ tra di noi pure quando si fanno battaglie su questioni sacrosante come la dignità delle persone e l’antifascismo.

Per lo meno oggi che quelli di Casapound stavano là, a due passi. Che poi chiarisco pure il concetto di “menà”, che non è picchiare come fanno loro, ma contestare, anche mettendoci il corpo, la presenza fisica, il loro modo ignobile di fare politica. Tra gli interventi che ascoltavo mi ha colpito quello di un ragazzo, giovane padre che diceva di vivere a poca distanza da lì, a Casal Bertone, che diceva più o meno questo: noi non sappiamo menare, se andiamo di là ci riempiono di mazzate perché quello della violenza è il solo linguaggio che conoscono, insieme con quello della vigliaccheria, ma noi dobbiamo rivendicare la nostra diversità, la nostra umanità, perché non siamo come loro, non andiamo in giro ad insultare donne, a terrorizzare bambini. E chiedeva agli abitanti dei palazzi di Via Satta di manifestare insieme, perché anche loro, i cittadini che vivono in quelle case, non sono così.

Tornando a Orfini, ho apprezzato umanamente il suo coraggio nell’affrontare la piazza e i contestatori, ma da un punto di vista politico l’ennesimo disastro. Per carità, tutti hanno il diritto di stare in piazza, a maggior ragione in una manifestazione come quella di oggi. Però Orfini si chieda come mai, al di là delle contestazioni odierne, ci siano questi atteggiamenti ostili nei suoi particolari confronti e nei confronti del suo partito. E si chieda se ritiene davvero sufficiente chiedere scusa per aver abbandonato le periferie senza che si sia fatta una seria autocritica sul perché il PD, e la sinistra nella sua quasi interezza, abbia negli anni abbandonato a loro stessi e alle incursioni della destra più becera e neofascista le periferie di Roma e non solo. Ecco, nonostante il suo “coraggio” credo che egli sia il simbolo del PD che semplicemente in questi anni ha deciso di rappresentare altre istanze, perché non aveva più interesse a farsi portatore delle voci, dei problemi, delle storie che venivano da quei territori. Ne tragga le conseguenze politiche e si tolga di mezzo, per come la vedo io.

Come dicevo il PD è in buona  compagnia, a sinistra sono davvero poche le persone e le realtà associative che in questi anni hanno provato a resistere in quei luoghi, però ci sono, ci sono state, e averle relegate a fenomeni di nicchia, estremisti da centri sociali, ha fatto si che da un lato si abbandonassero i territori, dall’altro si scavassero solchi sempre più profondi tra persone che per molto tempo sono state dalla stessa parte della barricata. Ascoltavo le conversazioni tra compagni, persone presenti alla manifestazione, e tutti concordavano sulla necessità di stare in quelle piazze non solo oggi, ma in maniera continuativa per dare nuova credibilità alla sinistra che vuol rappresentare quelle realtà e sottrarre così terreno e consensi ai fascisti. Il problema è come fare a risultare credibili se gli hai voltato le spalle per tanto, troppo tempo. Non sarà facile, ma questa è la sfida: riconnettersi con chi vive condizioni di disagio, con chi ha paura del presente e ancora di più del futuro, con chi spera di vedere migliorata la vita propria, quella dei figli, quella dei nipoti.

La posta in gioco

Non è la prima volta che ne parlo, ma forse è il caso di chiarire sempre meglio, prima  di tutto a me stesso,  la posta in gioco alla prossime elezioni europee e, nel caso in cui il governo non dovesse durare troppissimo (anche oggi i due vicepremier se le sono menate di santa ragione, vai a vedere se per finta o meno, ma quest’è), alle prossime elezioni politiche che si svolgeranno nel nostro Paese in un futuro forse non troppo lontano.

Piccola digressione prima di continuare il mio modestissimo ragionamento. Quanto durerà il governo nessuno lo sa. Forse non tanto quanto sarebbe necessario per far capire agli italiani il significato del disastro che si sta perpetrando dal punto di vista economico, sulle spalle dei più deboli che di più pagheranno le scelte scellerate in campo economico. La narrazione della ripresa che c’è ma che in realtà NON c’è può anche durare per qualche mese, ma come fu per Renzi alla fine i conti NON tornato e le persone che vivono in condizioni di disagio economiche, o che semplicemente vedono che le promesse mirabolanti del governo di turno non sono state mantenute,  ti abbandonano davanti alla realtà delle tasche vuote o dei sogni infranti. Renzi ci ha messo due anni a passare dal 40% al 20%, inanellando nel frattempo batoste elettorali su batoste elettorali. Spero che succeda lo stesso con la Lega, per la quale si annuncia un exploit alle Europee e che potrebbe cavalcare l’onda lunga del successo per andare al voto anche in Italia. Ma se, come dicevo, ci sarà invece il tempo di far toccare con mano agli italiani il fallimento delle politiche economiche messe in atto dal presente governo,  non so se questo basterà a far cambiare idea agli italiani su Salvini perché ahinoi sta facendo leva sui sentimenti peggiori degli italiani. Sta alimentando la paura, che a sua volta genera altra paura, genera odio, genera richiesta di misure forti, e temo che per scardinare questa narrazione e nel contempo provocare una reazione civica e razionale nella testa degli elettori ci vorrà un po’ di tempo.

Per tornare al tema di fondo delle mie riflessioni, la settimana scorsa grande scandalo per la visita di Salvini in Ungheria, con tanto di foto trucissime dei due nazi che scrutano l’orizzonte da una torretta messa lì a sorvegliare il muro che divide l’Ungheria dalla civiltà.
Mi sarei un po’ stancato di sentire chi, non senza torto, ci mancherebbe, sta lì a menarsela sulla contraddizione insita nell’alleanza Paesi-di-Visegrad-Salvini. Contraddizione evidente nell’assoluta mancanza di volontà dei Paesi del blocco dell’est di farsi carico della ripartizione dei migranti in Europa, o dei neo-nazionalisti di non fare alcuno sconto all’Italia in tema di rispetto dei vincoli macrofinanziari imposti ai conti pubblici dalla UE. Ecco, mi sono stufato perché deve essere chiaro che Salvini della ripartizione in Europa dei migranti semplicemente se ne fotte. Il suo modello è Orban punto. Nel senso che, semplicemente, il fenomeno delle migrazioni si risolvono non facendo entrare più nessuno, e difendendo i confini con il filo spinato, e se serve con l’esercito, le motovedette che sparano ai barconi. E tutto ciò dovrebbe diventare possibile, nel disegno del nazionalista nostrano, dopo il 26 maggio con la fine dell’Europa.

Idem per le questioni inerenti i conti. Salvini, in questo sostenuto al 100% dai suoi servi scemi di M5S,  non ha alcun problema a sostenere misure economiche in debito e in deficit, dicendo che non pagherà i debiti. Perché è esattamente quello che farebbe se vincessero i sovranisti-nazionalisti-neonazisti il 26 maggio. Nazionalismo, del resto, che significa? Pensare la proprio stato, ai propri interessi, quindi basta con l’Europa dei vincoli, dei conti in ordine, basta Europa proprio. Questo è il progetto, inutile girarci troppo intorno. E guardate che queste posizioni, in fondo, sono condivise dai suoi elettori. Io ahimè ne ho un po’ intorno ogni giorno, e queste tesi sostengono. I debiti non si pagano, e non è mai morto nessuno. La moneta unica è una aberrazione, un non-senso economico e finanziario. Viva il protezionismo, viva i dazi, viva l’autarchia, viva la Nazione isolata dal resto del mondo. Padroni a casa nostra. Leggete Bagnai, il vero ideologo della Lega in campo economico, e poi ditemi.

Tornando al tema dei migranti, Salvini non si fa alcun problema ad attaccare Papa Francesco per le sue prese di posizione a favore dei migranti, proclamando la sua fedeltà a Ratzinger, a quanto pare ben imboccato da Bannon in persona, in linea con i conservatori più conservatori e razzisti e retrogradi degli USA, sostenuti dai lobbysti delle armi e dai guerrafondai a stelle e strisce. Questo rischia di diventare il nostro Paese, una sorta di USA con le pezze al culo, senza alcuna forza economica autonoma, preda dell’egemonia cinese o russa, a seconda di chi offrirà di più per comprare i migliori asset del paese.

E in vista delle elezioni europee quello che mi sorprende è la possibilità che il PPE prenda in considerazione l’idea di trattare con questa roba, anziché proseguire nell’espulsione e nell’allontanamento di Orban e dei suoi sodali. Me la vedo la Merkel trattare con Salvini, Le Pen, Orban e compagnia bella.

Quindi il 26 maggio tutta questa roba va fermata. A tutti i costi.

Va fermato l’inganno messo in campo da Salvini, che distrae le masse con la sicurezza, Fazio, i migranti, la castrazione chimica, i grembiuli a scuola. Mentre il suo disegno è la disgregazione dell’Unione Europea. Addio Spinelli, addio Ventotene.

I Rom e noi

“Io non sono razzista, però i Rom mi stanno sul cazzo”.

Quante volte avete sentito un’affermazione del genere? Io tante, penso anche voi.

Quella di Rom, Sinti e Caminanti è la più discriminata delle minoranze, di sicuro nel nostro Paese, probabilmente in tutto il Continente.

I luoghi comuni sui Rom si sprecano da sempre.

Rubano, ma non mi consta che esistano statistiche che indichino una percentuale più alta di condannati in via definitiva per furto tra i Rom rispetto al resto della popolazione.  Ruberanno né più né meno rispetto al resto degli italiani.

Rubano i bambini, ma non si è mai registrato alcun processo per sequestro di minori a carico di membri della comunità Rom.

È vero, in alcune situazioni può destare allarme il fenomeno dei borseggiatori sui mezzi pubblici, come è vero che in alcuni casi le esalazioni provocate dal bruciare la plastica per ricavare il rame da rivendere siano un problema per la salute pubblica.

Però proviamo a pensare cosa vuol dire vivere nei campi, sia regolari sia irregolari, nei quali sono stati relegati a vivere nelle nostre periferie. Senza che, nella stragrande maggioranza dei casi, le istituzioni abbiano provato a mettere in piedi uno straccio di progetto di integrazione, lasciando al solito alle associazioni di volontariato il compito di assistere, le persone, i bambini, di avviare progetti di scolarizzazione per i minori.  E non è un caso che nei Paesi dove invece si è investito di più in integrazione, come in Spagna, sia minore il tasso di discriminazione.

Senza poi contare il fatto che secondo stime consolidate circa il 50% dei Rom presenti sul territorio italiano sono cittadini Italiani. Non è che hanno acquisito la cittadinanza italiana. No, sono proprio italiani di etnia Rom. Italiani come noi. Però italiani poveri. Italiani Rom poveri.

E allora, pur ammettendo per assurdo (ovviamente non lo penso affatto, non è che si possa impedire ad un cittadino Europeo povero, che non ha commesso reati di alcun tipo, di girare libero per l’Europa ) che tutti i Rom non italiani debbano tornare al loro paese d’origine, semmai ne abbiano uno (Macedonia, Romania, Spagna, o altro), con i Rom Italiani, poveri, che stanno in Italia che ci facciamo?

I campi sono una vergogna, e a detta di molti andrebbero chiusi. Sono d’accordo. Occorre però trovare altre soluzioni abitative. Quando si cercano altre soluzioni abitative, necessarie per poter provare ad immaginare percorsi di integrazione, succedono i casini come quelli di questi giorni a Torre Maura (non voglio entrare nel merito di quanto successo, quello delle periferie degradate di Roma e di altre città italiane è un fenomeno complesso).

In generale, per molti, moltissimi, almeno tutti quelli che dicono “non sono razzista ma i Rom mi stanno sul cazzo”, i Rom semplicemente dovrebbero sparire, volatilizzarsi, non esistere. Magari andrebbero sterminati. O deportati. O quantomeno incarcerati per il solo fatto di essere Rom, in una chiamata in correità per qualsiasi nefandezza e per il solo fatto di essere Rom. Ecco, tutto questo a casa mia si chiama razzismo.

L’Art. 3 della Costituzione stabilisce che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Discriminare un gruppo di persone per razza o condizioni sociali, come recita la nostra Costituzione, è la definizione esatta di razzismo. Punto.

Grandi Opere Vs Opere Grandi

Dopo aver partecipato alla manifestazione degli studenti #FridayForFuture ho fatto un salto anche a Piazza del Popolo, dove si sono riuniti gli edili (e non solo) di CGIL, CISL, e UIL per chiedere al governo di sbloccare i cantieri e far ripartire il settore delle costruzioni. 

Ho ritrovato le facce di molte delle persone che vedo all’opera quando vado in cantiere, non esattamente gli stessi ma comunque i volti della fatica, del sacrificio, del lavoro duro. Nutro per questi operai un rispetto sacro, anche quando alcuni mi fanno incazzare vedendoli poco attenti spesso non per colpa loro, alle condizioni di sicurezza nelle quali svolgono il proprio lavoro.

Sono rimasto in piazza un po’, a guardarmi in giro e ad ascoltare le parole che provenivano dal palco.

Sia chiaro, penso anche io che il settore delle costruzioni abbia bisogno di nuova linfa, perché troppi posti di lavoro si sono persi negli ultimi anni e perché troppo alto è il gap infrastrutturale che l’Italia sconta sia rispetto ad altri Paesi, sia rispetto a differenti aree geografiche del nostro stivale. Ma non si può pensare che solo le Grandi Opere siano portatrici di sviluppo e siano capaci di rimettere in moto l’economia.

Certo, la Sicilia sconta anni di mancati investimenti, di opere non realizzate o realizzate male, di trasporti su gomma affidati ad amici degli amici che hanno impedito lo sviluppo di una rete ferroviaria degna di un paese civile, e quindi ben vengano gli investimenti sulla direttrice Palermo-Catania-Messina. L’AV si ferma a Salerno, e sebbene la linea ferroviaria tra Salerno e Reggio Calabria sia a doppio binario permangono criticità di tracciato e di infrastruttura che rendono ancora troppo lunghi i tempi di percorrenza per raggiungere lo stretto di Messina. Del Ponte non ne parlo per pietà. Nel tempo la Napoli-Bari sarà raddoppiata, sono già partiti i primi due lotti dell’opera, mentre un pezzo del raddoppio alle porte di Foggia è stato già completato. Andare da Roma sull’Adriatico con il treno in tempi ragionevoli resta ancora un miraggio, mentre si sta invece cercando di arrivare al raddoppio completo della linea Adriatica, risolte le criticità delle gallerie di Cattolica, Ancona e Ortona. Parlo di ferrovie perché è il mondo che conosco, e perché ritengo che vada comunque, se parliamo di grandi infrastrutture, privilegiato il trasporto su ferro anziché quello su gomma, tanto nelle città quanto per collegare i grandi e piccoli centri produttivi del Paese. Anche per questo ritengo che andrebbe fatto un serio studio per capire quali delle ferrovie nel tempo dismesse potrebbero essere ripristinate con investimenti pubblici che finanzino non solo i lavori necessari a rimetterle in funzione ma anche un servizio universalistico di cui far godere pendolari e turisti.

Per quanto riguarda le strade, le cronache di questi mesi ci mostrano in tutta la sua drammaticità quanto sia importante la manutenzione dell’esistente. Proprio per questo non concordo con quanto sostenuto nel corso della manifestazione unitaria degli edili che una delle opere prioritarie per il Paese sarebbe l’autostrada Roma-Latina (e la bretella Cisterna-Valmontone). Ne ho avuto modo di parlare varie volte nel passato, e potete trovare qualcosa qui, qui, qui e qui.

Il succo è che spendendo molto ma molto meno si potrebbe mettere in sicurezza, iniziando in tempi relativamente brevi, la Pontina che continua a mietere vittime e che negli ultimi mesi versa in condizioni pietose, garantendo quindi sia un certo livello di occupazione, sia la possibilità di sviluppo virtuoso dei territori valorizzando le bellezze naturali, paesaggistiche, culturali dei territori.  In termini infrastrutturali, poi, da anni si discute dell’opportunità di realizzare una metropolitana leggera Roma-Latina che consentirebbe comunque di collegare Roma e Latina in maniera funzionale e rispettosa del territorio Ecco un esempio di come si possa uscire da alcuni dogmi, realizzare opere utili e contemporaneamente rivitalizzare il settore delle costruzioni (e non solo). Occorre solo avere chiaro quale modello di sviluppo si vuole adottare, e a mio avviso uno sforzo in più anche lato sindacale si potrebbe fare. Proposte non ne mancano, occorre solo essere laici abbastanza da volerle discutere ed adottare.

Ovviamente non posso che essere d’accordo sul fatto che, in generale, il Paese abbia bisogno di un piano di manutenzione straordinaria di edifici pubblici: scuole, ospedali, palazzi di giustizia, carceri. Da dotare di impianti fotovoltaici, da efficientare dal punto di vista energetico. Tanti piccoli interventi che favorirebbero anche mano d’opera e imprese locali, un circolo virtuoso per tutto il sistema.

E quindi non riesco a capire chi sostiene che per la Torino-Lione passi lo sviluppo di un intero paese. Personalmente sono stato sempre contrario a quell’opera, perché già ai tempi delle prime discussioni era evidente come fossero prive di fondamento le analisi sui futuri traffici merci, e nemmeno si può sostenere più di tanto che un’opera abbia un effetto moltiplicatore sugli scambi commerciali perché se c’è poco da trasportare anche un’opera nuova di zecca trasporterà ben poco.  Ed era comunque evidente, allora come adesso, che attorno a quell’opera comunque ci fossero posizioni ideologiche, tanto favorevoli quanto contrarie, che andavano al di là del merito. Nel frattempo i lavori sono andati avanti, anche se per il solo cunicolo esplorativo, però adesso non so quanto senso abbia bloccare tutto. Paradossalmente l’opera, qualora si decidesse di farla, credo dovrebbe costare di più e non di meno, nel senso che occorrerebbe sedersi, definitivamente, attorno ad un tavolo con le popolazioni locali e definire una partita di opere compensative che diventino patrimonio condiviso di quelle comunità e rassicurarli definitivamente sul bassissimo impatto ambientale della fase di realizzazione. Faccio presente che un’opera di quel genere, anche più mastodontica, si sta già costruendo nel nostro Paese,  si chiama tunnel del Brennero e non sento tutte queste polemiche. Forse perché non c’è la parola “TAV” davanti a “tunnel del Brennero”. A parte la galleria di base che sarà la più lunga del mondo con i suoi 64 km, sul versante italiano ci sono altre opere “accessorie”. Tra un po’ inizieranno a spostare il fiume Isarco, per dire. Però non se ne parla. Voglio solo dire che bisognerebbe mettere da parte un po’ di massimalismo e provare a ragionare, cercando d tenere insieme tutto: le esigenze delle popolazioni locali, la credibilità di una nazione che non può cambiare accordi internazionali a seconda delle maggioranze di governo perché si mette a repentaglio la credibilità di una a intera nazione. Senza però attribuire a una linea ferroviaria proprietà taumaturgiche per l’economia di una Paese di 60 milioni di abitanti.

In definitiva, quindi, nessuna preclusione ideologica per le Grandi Opere ma probabilmente per il nostro Paese avranno maggiore effetto anticiclico, in un periodo di stagnazione, Opere Grandi.

Primarie PD? No, grazie

Nei giorni scorsi, tra il serio e il faceto, ho socializzato il mio dilemma in merito alle primarie del PD, ossia se andare a votare Zingaretti per favorire l’uscita dei renziani oppure restare a casa.

Il PD non è più il mio partito dal 2015, ne sono uscito con sofferenza dopo che gli ultimi anni di permanenza erano stati essi stessi una sofferenza. Primarie ne ho viste abbastanza, e cio che in quell’occasione mi dava alquanto fastidio era il vedere in quelle giornate venire al circolo, o al gazebo, persone che con il PD non ci azzeccavano niente ma niente. Cammellati, fancazzisti, fascisti,  ex che speravano in qualcosa di nuovo. Ecco, io da ex, attualmente e credo per molto tempo ancora, anche da un PD de-renzizzato non spero proprio niente.

In questi mesi, e in questa campagna per la segreteria, nessuno dei candidati ha messo in discussione le politiche migratorie che hanno portato agli accordi per istituzionalizzare i lager libici, nessuno ha parlato di reintroduzione dell’art. 18, nessuno ha parlato di come combattere il lavoro povero e senza diritti, nessuno ha parlato di come ricucire il rapporto con le periferie, di come far muovere il paese senza far obbligatoriamente ricorso a opere faraoniche (tutti d’accordo per la Roma-Latina) e la Cisterna-Valmontone), di come tutelare sul serio l’ambiente, di come rendere la sanità pubblica efficiente e accessibile a tutti in tempi decenti.

Nessuno nel PD parla più di Angelo Vassallo.

Potrei continuare.

E quindi non potrei recarmi ai gazebo nemmeno come potenziale elettore. Come dicevo al compagno Simone, è un evento che vedo remotissimo, anzi di più. Posso auspicare che un PD rinnovato negli uomini e nelle donne e che sappia fare una seria autocritica sugli errori del passaro, nel tempo, possa diventare interlocutore serio e credibile anche per noi che vaghiamo nella galassia della sinistra corpuscolare, ma ho troppo rispetto per la comunità di uomini e donne (non tutti, sia chiaro) che ancora ne fanno parte per andare a scegliere il loro segretario.

Auguro a loro buona fortuna.

Il grande inganno

Nel silenzio quasi assoluto dei media e delle cronache e nel segreto delle trattative tra governo e regioni si sta consumando il più distruttivo degli inganni mascherato da riforma costituzionale. L’autonomia che si sta per concedere a Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna equivale alla disgregazione della Repubblica per come è stata concepita dai padri costituenti nel ’48.  La secessione delle regioni ricche, in virtù del principio perverso del mantenimento  nei territori del 90%  degli introiti fiscali mette fine al principio di perequazione tra regioni di uno stesso stato nonché al principio di solidarietà. Chi è ricco sarà più ricco perché nelle menti razziste, classiste e becere dei proponenti la riforma chi ha tanto merita sempre di più, e chi ha poco deve arrangiarsi. In questo senso le parole infami del Ministro dell’Istruzione non lasciano  spazio a dubbi e mette ancora una volta in evidenza il principio disgregatore dello Stato che muove la Lega sin dalle sue origini. In mezzo, le popolazioni del Sud Italia che hanno affidato le proprie sorti al ministro della malavita e a M5S sperando di raccattare le briciole di provvedimenti di carattere neo-assistenzialistici e si troveranno con una mano davanti e una di dietro, tra servizi sempre più scadenti e clientelismo, camorra e mafia sempre più pervasive, perché saranno le uniche a garantire la presenza che lo Stato non potrà più garantire.

Colpisce, tra tutti, l’atteggiamento del PD e del presidente della Regione Emilia Romagna Bonaccini, che porta nel baratro una tradizione di buon governo che sapeva farsi carico dei più deboli senza egoismi e che invece si fa carnefice di chi, scontando responsabilità non sue, è rimasto indietro. Povera Emilia Romagna.

E del resto tutto nasce dal governo Gentiloni che ha concesso alla trattativa con le regioni quanto nemmeno la controriforma costituzionale di Renzi aveva osato concedere.

Questa la battaglia delle prossime settimane, che deve riguardar tutti, cittadini, sindacati, associazioni, uomini e donne che credono ancora nella solidarietà tra pezzi di uno stesso Stato.

Ibrahim e gli altri

Ibrahim è uno dei tanti che sopravvivono per strada nei dintorni della Stazione Tiburtina. Continua ad essere assistito dai volontari del Baobab. Ti colpisce perché con il freddo di questi giorni non indossa mai una giacca. Si presenta la mattina al massimo con un maglione, a volte in maglietta. E poi fa sempre il gesto del saluto, portarsi la mano al cuore dopo che la sua mano ha stretto l’altra mano. Come a voler salutare di continuo tutto il mondo che lo circonda. Lo vedi avvicinarsi tremante per il freddo a prendere la sua colazione, il suo bicchiere di tè o di latte caldo. Sempre rispettoso, sempre gentile.

Non conosco la sua storia. Myriam mi dice che ha problemi mentali, e che è difficile aiutarlo.

Ibrahim le prime volte prende la colazione e va via. Si allontana e resta nei paraggi continuando a battersi la mano sul cuore. Pian piano inizia a salutarmi, da lontano. Poi mi dà la mano, e ci battiamo la mano sul cuore. Oggi mi vede, ci salutiamo e poi mi tira a sé per abbracciarmi. Un gesto semplice che mi riempie il cuore. Devo dire grazie a Ibrahim, e a tutti gli altri che sto piano piano imparando a conoscere.