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Post 4 marzo, e oltre

Difficile mettere a fuoco le idee dopo il 4 marzo, o forse no.

Quello che stiamo vedendo, patendo in questi giorni (si, io ho un dolore fisico che si aggiunge a quelli che già ho di mio) era prevedibile ma comunque evitabile.

Il voto ha sancito soprattutto la sconfitta del PD e della sinistra in tutte le sue forme, ma non era affatto scontato che dovesse nascere un governo Lega-M5S, viste le bordate che sono stati soliti tirarsi reciprocamente nel corso degli ultimi tempi. Così, per memoria, vi posto due dei video che più sono circolati in rete in questi tempi e che testimoniano la profonda stima tra le attuali forze di maggioranza. Poi, ci mancherebbe, sono forze democraticamente elette in Parlamento ed è più che legittimo che con un sistema proporzionale le maggioranze si formino dopo il voto, però, ecco, qua siamo ben oltre le schermaglie pre-elettorali. Vabbè

Evitabile se solo il PD avesse scelto quantomeno di andare a vedere le carte, nel momento in cui si profilava la possibilità di far partire un dialogo con M5S. Come candidamente hanno ammesso, per i pentastellati l’importante era andare al governo, forti del loro 32 e rotti percento, e quindi poca differenza avrebbe fatto per loro governare con PD anziché Lega. Del resto destra e centro (il PD non è un partito di sinistra) pari sono quindi le possibilità di successo erano decisamente alte, seppur percorrendo una strada tutta in salita.

E invece è entrato in scena lui, il finissimo stratega mangiatore di popcorn, al secolo Renzi Matteo di Tiziano da Rignano sull’Arno che, non pago degli insuccessi inanellati uno appresso all’altro dopo la sbornia delle Europee (le lune di miele con gli elettori possono durare più o meno, ma finiscono sempre) ha deciso, da vero segretario del PD, che al tavolo non ci sarebbe nemmeno dovuti avvicinare.

E quindi eccoci tutti a soffrire per il governo attuale.

Un governo che presenta novità tanto eclatanti quanto inquietanti.

Un Presidente del Consiglio che sostanzialmente non conta niente, messo lì come due chiappe su un ramo (come ebbe a dire John McEnroe ad un arbitro durante uno dei suoi memorabili match). Ministri sconosciuti che hanno l’autonomia di un paracarro. (altra citazione, per pochissimi addetti ai lavori) Tutti pronti ad essere immediatamente smentiti, appena profferiscono verbo, dal vero capo della compagine, Matteo Salvini. E intanto la Lega si mangia M5S, visto l’assoluta irrilevanza politica del suo omologo, viste le incazzature di quella parte della base elettorale di M5S che proviene da una storia di sinistra e viste le affinità di quella parte della base elettorale di M5S più populista, sovranista, razzista e che quindi troverà naturale schierarsi con l’originale.

Quindi i provvedimenti del governo. Ad oggi, in realtà, zerovirgolazero. Bastano i proclami, le chiusure dei porti, la guerra alle ONG, gli attacchi a Saviano, le dimostrazioni di cielodurismo nei confronti di altri leader europei che sicuramente fomentano gli adepti ma che in sostanza non fanno altro che isolare il nostro Paese senza che si ottengano risultati invece tanto sbandierati dalla maggioranza. Sulla bestialità dei provvedimenti anti-migranti voluti da Salvini non c’è nemmeno necessità di tornare, basta dire che l’Italia è la culla del Mediterraneo, fin dagli albori della civiltà che ha sempre fatto dell’accoglienza, del mescolamento tra razze, del meticciato culturale il suo punto  di forza,  e invece oggi si trova ad utilizzare disperati che fuggono da guerre, stupri, povertà, come clave da sbattere sul tavolo quando ci si trova a discutere con altri Paesi. Ecco, quale forza enorme si sarebbe avuta, sugli stessi tavoli, se si fossero sbattuti i pugni forti del proseguire a salvare vite nel Mediterraneo? L’Italia, con il patto di Visegrad, con la sottocultura del rifiuto dell’altro, del rigetto della solidarietà tra popoli, dell’autarchia fascistoide che quel patto ha espresso non dovrebbe entrarci nulla e di fronte ad un governo apertamente xenofobo, razzista, lepenista, fascista la pregiudiziale che nutro è talmente forte e radicata in me che non ci sarà alcun provvedimento che potranno adottare che avrà il mio personale plauso.

In questo periodo, come in quello elettorale e anche prima, l’Europa è al centro del dibattito, talmente al centro che viene usata anche come macchina da fumo per nascondere, agli occhi di chi ha creduto alle promesse di Lega e M5S, l’impossibilità di realizzare ciò che molti hanno creduto fosse possibile, dall’abolizione della Fornero (la riforma in discussione aumenterà l’età pensionabile), il reddito di cittadinanza (se lo chiamavano Lavoro Socialmente Utile non  li avrebbe votati nessuno), la flat-tax (che in ogni sua forma è incostituzionale). Sia chiaro, l’Europa, anzi, meglio, i suoi governanti e le sue istituzioni, in questi anni ci hanno messo del loro per rendersi invisi ai popoli europei. Le ragioni le conosciamo tutti, e le abbiamo vissuti tutti sulla nostra pelle, nel bene (poche volte) e nel male (molto più spesso). Ma non è con l’autarchia, con il sovranismo che nega l’altro, con i dazi, con le guerre commerciali, con la svalutazione della moneta nazionale e l’inflazione galoppante che si risolveranno i problemi dell’Europa. La soluzione sta nella democratizzazione delle istituzioni, nella partecipazione diretta dei popoli alle scelte che li riguardano, nella costituzione di regole e strumenti comuni che tutti gli stati membri dell’Unione  dovranno impegnarsi ad adottare e difendere.

Senza una visione  di ciò che dovrà essere l’Europa anche il dibattito a sinistra, che già presenta la linea dell’encefalogramma piatta, sarà definitivamente destinato a fallire. Come dicevo all’inizio delle mie riflessioni i veri sconfitti alle elezioni sono stati i partiti di sinistra o presunta tale e a quattro mesi dal voto salvo rarissime eccezioni non è stato fatto uno straccio di autocritica per capire cosa sia successo, quali siano gli errori da non ripetere e da dove ripartire.  Quello che vedo in giro è una diffusissima volontà auto assolutoria che lascia tutto com’è sperando che passi la nottata o che finisca l’idillio tra una parte del paese e il governo attuale, come se i fallimenti altrui dovessero bastare per traghettare sic et sempliciter i voti dauuna parte all’altra. Non è così. Le ultime elezioni hanno dimostrato che una parte sempre più consistente dell’elettorato preferisce non votare piuttosto che scegliere soluzioni che non convincono. E così com’è, o come se la stanno immaginando i  suoi presunti leader, la sinistra o presunta tale non se la fila più nessuno.

PD, che mentre Renzi comanda si divide tra propositi di ricostruzione tra Calenda (!!) e Zingaretti e tutti sono contro tutti, come sempre.

LeU,, che oggi lancia il comitato promotore nazionale, fatto di persone rispettabilissime che probabilmente sono già di più rispetto ai loro elettori.

Possibile, unico partito con segretario che si è dimesso sul serio dopo la mazzata del 4 marzo, che continua ad occuparsi di temi importanti su diritti, migranti, caporalato, criminalità ma che ha la rappresentatività di un comitato di quartiere.

PaP, che rappresenta istanze sacrosante del mondo del lavoro, del mondo dei diritti, del mondo dei dimenticati ma ha di poco superato l’1% alle passate elezioni e non può far finta di aver vinto le elezioni. Il massimalismo va bene, ma senza confronto con altre forze politiche che presentano affinità rispetto alla tue non si va lontano.

Nessuno di questi partiti presenta alcuna attrattiva per la stragrande maggioranza dell’elettorato e secondo me vanno sciolti, al più presto. Fatto questo primo passo è necessario definire in quale campo vuole giocare la sinistra della terza decade degli anni 2000, quali parole d’ordine debba mettere al centro della sua azione politica, quali soggetti intenda tutelare, quali i principi irrinunciabili, quali i blocchi sociali da rappresentare.

Tutto ciò non senza che, prima, sia chiaro a tutti che le persone che hanno giocato un ruolo politico fino al giorno prima non possono più rivendicare alcunché per loro stessi e devono, improrogabilmente, lasciare il campo ad altri. Con tutto il rispetto che posso nutrire per le loro storie politiche personali e al di là della loro età anagrafica e del tempo passato in Parlamento. Non li faccio i nomi, tanto li conoscete, sono quelli che stanno in TV, che presenziano, che appaiono, che lanciano appelli, scrivono lettere. Nonostante l’attivismo, il parlamentarizzare questioni che riguardano crisi industriali, licenziamenti, il provare a stare sul pezzo hanno perso la capacità di rappresentare autorevolmente la loro e la nostra parte politica. Non basta più stare nei luoghi del conflitto, mi dispiace per loro, ma hanno tutti fatto il loro tempo.

Si ricominci da persone come Mimmo Lucano, Pietro Bartolo, Andrea Costa, Aboubakar Soumahoro, Marta Fana, Elly Schlein, Ilda Curtii e tutti quelli che possono portare esperienze di amministrazione e di impegno sociale nelle loro comunità esportabili su vasta scala. Devono essere persone così a rappresentare, anche nei media, le idee della sinistra del futuro.

Forse così, ma con un forse enorme, tra cinque anni potremmo provare a ribaltare il cappottone del 4 marzo. Ma non è affatto scontato.

Senza titolo

 

Ho sempre pensato che le donne debbano essere rivoluzionarie per definizione.

Dalla creazione (la costola di Adamo), passando per la Bibbia, il Corano, l’arte, la scienza, lo sport, la politica, la società, la famiglia, l’esercito, il lavoro, purtroppo tutto ha sempre confermato il pensiero comune di moltissimi maschi che la donna debba stare un passo indietro, che non debba esistere parità di accesso al lavoro, di retribuzioni, di diritti.

Per questo quando ascolto le parole di donne retrograde, conservatrici, che sostanzialmente accettano di stare al loro posto, all’ombra del maschio (o che per farsi valere si comportano peggio dei maschi), mi pervade una tristezza infinita.

Ma se non lo cambiate voi il mondo, chi lo cambia?

Analisi post voto (nel senso che tocca andare in analisi)

Lo ricordo bene il 1994, eccome se lo ricordo. Dopo Tangentopoli, i governi lacrime e sangue, le vittorie del centrosinistra a Torino, Napoli, Roma, Trieste, Catania pensavamo davvero che il Paese avrebbe scelto la gioiosa macchina da guerra guidata da Achille Occhetto. E invece arrivò Berlusconi, che riuscì ad intercettare il voto dei moderati, sdoganò i fascisti, ci asfaltò e vinse le elezioni, con tutto quello che ne è conseguito in questi 24 anni.

Quella fu una mazzata tremenda. Lo ricordo eccome. Non ci capacitavamo, a sinistra, di come fosse stato possibile che gli italiani avessero fatto una scelta di quel tipo. Ci mettemmo mesi ad assorbire la mazzata. L’incredulità, il rifiuto della realtà durò a lungo. Ci sentivamo diversi, culturalmente, moralmente e intellettualmente superiori (in parte sbagliando, ovviamente), rispetto a chi aveva fatto una scelta tanto dirompente quanto inaspettata. E il Paese era diviso, letteralmente in due, a sancire questa (presunta?) diversità tra i blocchi di berlusconiani e antiberlusconiani. Nemici da guardare in cagnesco, gli altri. Alieni. Stranieri.

Oggi, all’esito delle elezioni politiche, niente di tutto questo., almeno per me. Il risultato era abbastanza scontato, si trattava solo di stabilire i rapporti di forza entro un quadro sostanzialmente noto. E, a differenza del 1994, non vivo quel medesimo stato di conflitto rispetto a chi ha espresso un voto diverso dal mio. Sia chiaro, sono deluso, smarrito, e, manco a dirlo, continuo a sentirmi profondamente diverso dai fascisti (quelli veri che purtroppo hanno avuto modo di partecipare alle elezioni) dai leghisti-leghisti che sono razzisti e omofobi fino al midollo (e non gli basterà la foglia di fico di un senatore di colore per sovvertire la realtà), dai grillini-grillini che hanno portato il cervello all’ammasso (vedi alle voci vaccini, complotti, scie chimiche), dai fan acritici di Renzi, da quelli che cantano a squarciagola “meno male che Silvio c’èèèèèèè”. Però poi l’analisi dei flussi ha dimostrato come l’elettorato si sia spostato verso i vincitori delle elezioni: sostanzialmente chi in passato ha votato nel centrodestra ha scelto Salvini, chi ha votato centrosinistra ha scelto M5S. Quindi tra chi ha scelto il partito di maggioranza relativa, a torto o a ragione, c’è anche un pezzo del “popolo di sinistra” che è stato fianco a fianco con molti di noi negli anni passati e, nonostante la loro scelta, non riesco a sentirli indistintamente tutti stranieri, al pari di quanto invece avvenne con chi scelse Berlusconi, Lega Nord e i neofascisti nel 1994.

Come si è arrivato a tutto ciò, al risultato elettorale che ha anche sancito la sostanziale estinzione della sinistra, per come siamo stati abituati a conoscerla, nel nostro Paese?

Si possono individuare motivi esogeni e motivi endogeni, che in parte si rincorrono e intrecciano indissolubilmente.

La diffidenza nei confronti dell’Europa ha radici lontane. La tassa sull’Europa di Prodi (in parte restituita) fu pagata magari malvolentieri ma con la fiducia e la speranza, per molti, che sarebbe servito a creare un’Europa migliore, più vicina ai cittadini, più attenta ai bisogni dei singoli. E invece è bastato l’avvento dell’Euro, passaggio epocale ma gestito, ai tempi, con i piedi dal governo di centrodestra, per sovvertire completamente il quadro e nutrire una sempre crescente diffidenza nell’Europa, che è finita per apparire matrigna, sanguisuga, capace solo di imporre vincoli di bilancio, impotente davanti alle tecnocrazie, buona solo a legiferare sul parmesan cheese, nella maggior parte a discapito di aziende, produttori, consumatori italiani. Da qui il primo elemento di successo delle forze antieuropeiste e di conseguente crisi nella rappresentanza della sinistra, che è apparsa più come baluardo dello status quo che forza capace di mettersi alla guida di un processo di riforma profonda delle istituzioni europee. Metteteci pure che effettivamente, in una certa fase storica, buona parte della sinistra poi confluita in LeU ha effettivamente sostenuto il pareggio di bilancio in Costituzione e l’applicazione bovina dei vincoli di bilancio imposti da Bruxelles ed ecco che e uova iniziano a rompersi e la frittata a formarsi. E infatti le uova raramente si rompono da sole, quindi l’imposizione serrata dei vincoli di bilancio ha imposto la scrittura della riforma Fornero (anch’essa votata da “quellidisinistra” che sostenevano il governo Monti),  la madre della maggior parte delle recriminazioni (per non dire di peggio) di moltissimi lavoratori italiani che sono a loro volta sfociate nel voto a Lega e M5S.  Sono strasicuro che ciascuno di voi conosce qualcuno che ha votato Lega per il semplice fatto che, tra le sue promesse (realizzabili, secondo il Bagnai-pensiero, uscendo dall’Euro e ricominciando a stampare moneta…), c’era quella di abolire la riforma Fornero e consentire quindi di andare in pensione ad un’eta decente e soprattutto evitando di arrivare con la badante o il catetere sul luogo di lavoro.  Al solito il punto di forza, o di debolezza, di chi fa politica è la credibilità, e sei sei visto come parte del problema non puoi pensare di essere la soluzione del problema.

E siccome un problema se ne porta sempre appresso un altro, l’innalzamento dell’età pensionabile ha allontanato l’ingresso nel mondo del lavoro di giovani, un circolo vizioso che alimenta la precarietà (manco ce ne fosse stato bisogno vista la situazione già critica che negli anni si è venuta a creare post riforme Treu, Biagi e, da ultimo, Jobs-Act) mentre i diritti dei lavoratori si assottigliano sempre più, fino a scomparire quasi del tutto nelle realtà lavorative post-fordiste alla Amazon, nel settore servizi, fino alla scuola (a tal proposito, se volete approfondire, vi consiglio di leggere Marta Fana).

Altro uovo che ingrandisce la frittata, rotto per gli urti con le altre due. E anche in questo caso gli elettori hanno reputato che la frittata fosse stata fatta anche con la complicità della sinistra, quindi meglio cambiar cuochi. Cuochi nuovi, magari inesperti, sperando che almeno un piatto di cacio e pepe la sappiano cucinare.

Insomma, mi sembra appropriato il concetto espresso da Ennio Fantaschini in Ferie d’Agosto.

Come uscirne, da dove iniziare?

(Apro una parentesi. Qui si parla di LeU, ma personalmente ho diviso il mio voto tra LeU e Potere al Popolo quindi due parole su di loro voglio spenderle. Li ho votati  al Senato e nonostante non fossi d’accordo al 100% con le loro proposte, nonostante la sceneggiata di Viola Carofalo al Brancaccio abbia contribuito, non da sola,  al fallimento di quel progetto che, con tutti i suoi limiti, poteva segnare un punto di svolta nella campagna elettorale e quindi per l’esito delle elezioni, nonostante non abbia condiviso le azioni messe in atto per impedire fisicamente alle persone, in questo caso Massimo D’Alema e Susanna Camusso, di prendere parte ad un convegno all’Università di Napoli, manco fossero stati di Forza Nuova o Casapound. Però ho scelto di sostenerli perché ritengo che rappresentino al meglio quella funzione di mutualismo sociale che un tempo era appannaggio dei partiti di sinistra e che oggi si è persa, perché si sono messi dalla parte dei più deboli con azioni concrete e non a chiacchiere, perché sono dalla parte dei migranti senza se e senza ma. Detto questo, non vedo pure per loro cosa ci sia stato da festeggiare per l’1 e spicci percento raccolto alle elezioni, forse davvero s’era bevuto troppo, la sera delle elezioni. Pur non avendo responsabilità dirette come la sinistra che ha partecipato al governo del Paese, sono stati travolti dalla stessa onda e quindi spero PaP e chi ha ha votato per loro si senta parte del processo di ricostruzione della sinistra in italia, con umiltà e senza preconcetti, perché stanno all’anno zero come tutti noi).

Come ho avuto modo di scrivere oggi su FB commentando un articolo del compagno Cardulli, lungi dal cedere a derive rottamatrici, se è vero che, probabilmente, non c’è tantissima differenza tra il 3% o il 6%, il risultato è stato ampiamente sotto le aspettative e credo che comunque non abbia aiutato il fatto che una parte consistente di chi ha incarnato “il problema” fosse in prima fila a rappresentare LeU. C’è una sparuta rappresentanza in Parlamento, non si sa quando si voterà di nuovo, se tra tre mesi o tra cinque anni, e in genere è più facile che una forza politica sia rappresentata, anche mediaticamente, da chi sta in Parlamento rispetto a chi ne sta fuori. Ecco, io non vorrei che in questi mesi, e magari per cinque anni , LeU fosse rappresentata principalmente (con tutto il rispetto che nutro per la loro storia e l’affetto personale che posso sentire personalmente) da Bersani, Epifani, Stumpo, Grasso, Errani, Speranza, Fassina. Credo che in tempi abbastanza rapidi vada favorito il profondo rinnovamento anche della rappresentanza parlamentare, consentendo a compagne e compagni che non sono stati eletti di crescere anche assumendosi la responsabilità di rappresentare la sinistra in Parlamento.

Certo non basta il rinnovamento delle classi dirigenti per provare a riconquistare la fiducia di chi, sentendosi abbandonato, ha deciso di scegliere altro. Ma è un primo passo. Sarà una strada lunga, lunghissima, durante la quale bisognerà mettere in discussione tutto. Sé stessi in primis, e poi metodi, riti, luoghi di discussione, analisi, certezze. Tutto. Ben vengano le assemblee convocate in questi giorni e quelle che verranno, momenti catartici nei quali è bene che nulla rimanga nell’alveo del non detto. Ma ovviamente non sarà sufficiente. Ne parlavo con il compagno Simone, forse davvero occorre ricominciare dalle Case del Popolo. Forse davvero, con tutte le difficoltà ulteriormente amplificate dalla disintermediazione, dalle nuove forme di comunicazione e partecipazione, occorre ricominciare da un partito strutturato che apra i circoli ai quartieri per offrire non solo un luogo fisico di discussione ed elaborazione ma che sappia far rete per intercettare i bisogni di chi è rimasto indietro. Di sicuro occorre occupare permanentemente e strutturalmente i luoghi del conflitto e rappresentare a livello parlamentare, con atti concreti,  le istanze dei lavoratori, de precari, degli insegnanti, di chi è rimasto indietro, di chi ha visto crescere sulla propria pelle le disuguaglianze, la precarietà, la paura nel futuro (senza però dimenticare la parte sana del tessuto produttivo, le imprese che non delocalizzano , gli imprenditori che senza paternalismo considerano i suoi dipendenti parte della sua famiglia, le aziende che innovano, che rispettano l’uomo e l’ambiente). Paradigmatico, in questo senso, il servizio di #PropagandaLive fuori dai cancelli della fabbrica FCA di Pomigliano d’Arco, patria di Luigi di Maio. Alla domanda di Diego Bianchi sul perché la sinistra non sta più fuori da quei cancelli, la risposta dell’operaio racchiude tutto: perché ha perso la strada.

Ritrovarla non sarà semplice, per niente.  Riconquistare la fiducia di chi si è sentito tradito  sarà un’impresa titanica, che probabilmente si compirà, se si compirà, in non meno di un decennio. Troppa la delusione generata in chi ha sempre votato a sinistra e oggi ha scelto altro. Però secondo me esistono ancora praterie a sinistra, ma non potremo riconquistarle se non sapremo rappresentarla con persone credibili sulle quali far camminare idee, pensieri, azioni.

Ritroviamoci, e forse dal letame nasceranno fiori, come diceva uno bravo.

Pensieri lunghi, diceva un altro ancora più bravo. Lunghissimi.

 

 

 

Roma

Uno dei vantaggi dell’andare in giro per campi di calcio il sabato e la domenica è quello di scoprire pezzi di città, soprattutto in periferia, che difficilmente uno vedrebbe. Così si ha l’occasione di camminare per strade di quartiere, di vedere le persone che si salutano per la via come in un paese di provincia, di vedere nei loro occhi umanità, miserie, problemi, speranze, gioie, dolori.
Nel bene e nel male, anche questa è Roma.

Il futuro della mobilità a Roma

A Roma si sta iniziando a sviluppare un interessante dibattito sulla rete dei trasporti del futuro, grazie al progetto presentato da Metrovia, alle osservazioni formulate da Romafaschifo (spesso non condivido i toni e le risposte di Romafaschifo sui temi che analizza, ma ben venga il confronto).

Quello della cura del ferro, nella città di Roma, è un progetto del quale si parla da decenni, ormai. Un contributo sempre attuale lo ha dato anche Walter Tocci, qui, qualche tempo fa.

Ho dato un’occhiata al progetto di Metrovia e provo a dire brevemente la mia. Intanto mi sembra alquanto complicato trasformare le linee ferroviarie regionali in linee di metropolitana. O quantomeno la fanno un po’ facile, i progettisti. Come si realizza la cessione del servizio? Chi gestirebbe la rete, che oggi è di proprietà di RFI? Chi metterebbe i treni, che oggi sono di Trenitalia e vengono pagati tramite il contratto di servizio stipulato tra FSI e Regione? ATAC? Visto lo stato attuale in cui versa la municipalizzata dei trasporti di Roma mi sembrerebbe più realistica (!) un’acquisizione della rete metropolitana esistente da parte di Ferrovie, sinceramente.

E poi, con tutto il rispetto, mi sembra che i progettisti di Metrovia la facciano un po’ semplice sulla realizzazione di nodi di scambio e nuove fermate.

Due esempi relativi a zone della città che conosco.

Nodo di scambio Libia/Nomentana: un “collegamento pedonale sotterraneo con tapis roulant che corra parallelo alla metro B su viale Libia e poi su viale Etiopia”, anche se non lo fai con la TBM, comporta quantomeno chiudere del tutto due strade non secondarie, realizzare  paratie, solettoni per poi scavare una volta ripristinata la viabilità di superficie. Non è uno scherzo. Si fa, ci mancherebbe, ma non è un intervento da poco.

Nuova fermata Batteria Nomentana: anche in questo caso coprire il vallo attuale con una piattaforma sulla quale realizzare la stazione, modificando i binari attualmente presenti o, in alternativa, realizzare un collegamento sotterraneo non mi pare uno scherzo.

Moltiplicate tutto questo per 32 nuove fermate e 21 nodi di scambio e ne viene fuori un progetto non da poco, in termini di costi e tempi di realizzazione. Non sto dicendo che il progetto sia da buttare o che le cose siano irrealizzabili, dico solo che non è uno scherzo.

Che poi Roma abbia bisogno di progettualità, di risorse, di una visione che disegni, anche nella mobilità, la città del 2030 (2040?) è sotto gli occhi di tutti.

Quindi, in definitiva, ben vengano proposte e dibattiti che ne conseguono.

P.s. delle idee di Walter Tocci mi piaceva particolarmente l’applicazione del “Metodo Roma” alla progettazione integrata tra infrastrutture e archeologia, in modo tale da valorizzare al massimo i beni archeologici, soprattutto nella zona dei Fori Imperiali che, secondo le previsioni di Adriano La Regina, sarebbe dovuto diventare, con la realizzazione della fermata Colosseo, il più grande parco archeologico del mondo. Chissà.

Almeno le feste comandate

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Quelle laiche e quelle non laiche.

Che ormai le domeniche, tutte le domeniche, i negozi siano, o possano, essere aperti lo diamo per acquisito. Il logorio della vita moderna ci impone, o ci rende comodo poter fare acquisti durante il fine settimana. Diamo per scontato che durante i giorni di festa ci siano persone che lavorino per assicurare a noi tutti servizi essenziali: sicurezza, sanità, farmacie, trasporti, emergenze.

Che il piccolo commerciante, poi, decida di tenere aperto anche durante i giorni di festa ci può anche stare, è una sua scelta aprire o meno.

Ma quello che mi chiedo è quale servizio essenziale possa garantire un centro commerciale o una enorme catena di distribuzione tenendo aperto il giorno di Natale, il giorno di Pasqua, il 25 Aprile, il Primo Maggio, il 15 Agosto (di questi giorni sto parlando). Quale bisogno impellente di comprare, o di guardare le vetrine può avere una persona normale in quei giorni lì? E che libertà di scegliere hanno i lavoratori dei centri commerciali, pur guadagnando qualcosa in più (sempre che le aziende si comportino in maniera corretta?)

 

 

Di Berdini e di Roma

Paolo Berdini ha gestito in maniera pessima, soprattutto dal punto di vista comunicativo, la sua fuoriuscita dalla giunta. Sarebbe bastato attendere qualche giorno e il dissenso sarebbe maturato ed esploso sulla questione stadio. Ne sarebbe uscito pulitissimo e a testa alta. Ad ogni modo la sua presenza nel governo della città era l’unico elemento che mi facesse nutrire un minimo di fiducia nell’operato dell’amministrazione. Perché ho avuto modo di conoscere personalmente Berdini e condivido la sua idea di sviluppo urbanistico della città. Andato via lui, da oggi la mia opposizione alla giunta Raggi sarà netta, per quello che è nelle mie possibilità di cittadino residente a Roma.

Non mi pento di aver votato Raggi al ballottaggio. Quel voto aveva un duplice intento. Spronare la base del PD affinché la sonora sconfitta di Giachetti, dopo l’infame cacciata di Ignazio Marino, servisse per rivoluzionare il PD romano, per fare piazza pulita dei dirigenti, dei capibastone, degli ominicchi che hanno condotto il Partito Democratico a Roma in una maniera scandalosa. Noto con tristezza che ciò non è avvenuto., quindi da questo punto di vista il mio primo obiettivo è miseramente fallito. L’altro intento era quello di sfidare sul piano dell’amministrazione M5S per capire se fossero o meno in grado di governare la città. E di avere una visione di città diversa dal passato. Da questo punto di vista il mio voto è servito eccome.

A questo punto andassero via prima possibile, forse a Roma serve solo un altro commissario, in attesa che maturi una nuova classe dirigente che sappia amministrare la Capitale con coraggio (vero), efficienza, onestà (vera) e competenza.

Guardate e vergognatevi (se ne siete capaci)

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Questo bambino non è Mohammad, e nemmeno Alan. È semplicemente uno dei 6 bambini che muore di fame ogni minuto, il tempo che leggiate le prime righe di questo post. Anche se oggi sentiremo parlare di Mohammad morto in Birmania, e ci commuoveremo a guardare la sua immagine a viso riverso nel fango, così come ci siamo commossi a vedere il volto di Alan riverso nella sabbia. E abbiamo tutti pensato che non si può morire così, e ci siamo indignati, e ci siamo convinti che bisogna fare qualcosa per questi disperati. E poi però il tempo lava tutto, e si va oltre.

Continuo a pensare che gli immigrati economici abbiano lo stesso identico diritto dei migranti politici (meglio conosciuti come profughi), ossia quello di perseguire la speranza di vivere una esistenza dignitosa, bambini, adulti, mamma, papà, figli, in qualsiasi paese del mondo che non sia il loro. Che non può essere momentaneamente il loro per motivi che possono essere la guerra come la fame.

I governi dei paesi che stanno bene hanno il dovere di accogliere tutti, ciascuno secondo le proprie possibilità, non fosse altro se non per restituire quello che abbiamo tolto ai poveri del mondo in termini di armi vendute ai loro dittatori, di risorse naturali depredate, di manodopera a basso costo sfruttata in loco, di aziende che delocalizzano fottendosene dei diritti dei lavoratori.

E quindi mi indigno sentendo parlare di espulsioni, di nuovi CIE, di rimpatri forzati. Andrebbero rimpatriati solo i delinquenti condannati in via definitiva per i reati previsti dal codice penale (eccetto che per il reato di immigrazione clandestina). Rimpatri poi, si fa presto a parlare di rimpatri per compiacere l’opinione pubblica, quando esistono accordi bilaterali con un pugno di paesi che rendono impossibile mettere le persone su un aereo e via.

Mi indigno perché i governi non possono piangere lacrime di coccodrillo davanti alle foto dei bambini morti e poi propagandare le espulsioni di massa dei migranti economici. Mi indigno perché si ascolta la pancia della gente, mentre chi governa, se illuminato, dovrebbe avere il coraggio di prendere provvedimenti probabilmente impopolari ma giusti, anziché inseguire i fasciogrillino di turno, o il fascioleghista di turno. Che poi finisci per diventare come loro senza nemmeno accorgertene. O forse ‘sto schifo lo celavi dentro, dal 2007, e dovevi solo tirarlo fuori.

Un NO convinto, nel merito

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Ci siamo.

Il 4 dicembre è dopodomani.

Una liberazione, finalmente. Dagli eccessi di un dibattito che si è protratto fin troppo e che ha raggiunto spesso un livello infimo, grazie a buona parte dei contendenti in campo, su un fronte e sull’altro. Il suo ce l’ha messo sicuramente il Presidente del Consiglio che, notoriamente, non è un uomo da mezze misure. O con me o contro di me, e che il Paese sia lacerato oltremisura non è un problema da porsi oggi, e nemmeno nei mesi a venire. Perché al di là dei risultati di domenica, per spalare le macerie che si sono prodotte in questi mesi e ricostruire un minimo di unità nel paese ce ne vorrà, di tempo.

Qui sorge, per me, il primo elemento di critica nei confronti del referendum e di chi lo ha proposto. È vero, in un referendum ci si divide tra favorevoli e contrari. Ma un leader divisivo come Matteo Renzi non si era mai visto sulla scena politica italiana. Ad alcuni piacerà, per me è un male. Come è un male aver creato questa profonda divisone sulla Costituzione, la Carta che dovrebbe unire. L’aver legato, poi, i destini (?) della patria (spread alle stelle, uscita dall’Euro, economia allo sbando, disoccupazione, cataclismi, cavallette) a quelli personali di un leader è responsabilità unica del premier. Se l’esito del  referendum sarà a lui sfavorevole, ne trarrà le conseguenze che riterrà più opportune.

Entrando nel merito, voto NO perché questa riforma della Costituzione non raggiungerà alcuno degli obiettivi che con tanta enfasi hanno indicato durante questa campagna referendaria.

L’aver sottratto al Senato il voto di fiducia e l’iter legislativo tipico di un bicameralismo paritario non risolverà i (presunti) problemi dei tempi di approvazione delle leggi. Si è voluto surrettiziamente attribuire alla Costituzione la colpa del ping-pong dei provvedimenti tra Camera e Senato, omettendo di dire che quando (raramente) ciò succede la responsabilità è a carico esclusivo della mancanza di accordo tra le forze politiche che compongono la maggioranza. Si vuole insomma risolvere per via Costituzionale un problema che è squisitamente politico.

La formulazione del nuovo articolo 70  fa si che l’iter legislativo sarà comunque complesso, rendendo possibile il rimpallo delle leggi tra Camera e Senato, a maggior ragione se, come probabilmente accadrà, le maggioranze nei due rami del parlamento saranno disomogenee, come peraltro anche attualmente spesso avviene.

Le novità introdotte dal riformato art. 117 configurano uno spiccato centralismo che da un lato esautora le regioni da una serie di competenze sulle quali invece ritengo giusto che  si possano esprimere le comunità locali, dall’altro provocherà conflitti di attribuzione che finiranno con il rallentare il processo decisionale.

I miseri risparmi ottenuti con l’assenza di indennità per i nuovi Senatori (si poteva fare molto di più per via ordinaria, metà parlamentari a metà prezzo è una proposta in campo da anni e mai esaminata seriamente) non compensa minimamente lo scippo perpetrato ai danni degli elettori, che non potranno scegliere i propri rappresentanti al Senato (la scheda che mostra Renzi in queste ore è una bufala, siamo all’atto di fede). A questo proposito fatemi dire che la campagna di Renzi ha provato a scatenare gli istinti più populisti e beceri con argomenti “anti-casta” (quale??) che altri probabilmente possono utilizzare con maggiore credibilità. Ricordando che tra le copie sbiadite e l’originale tendenzialmente gli elettori preferiscono l’originale.

Il Senato, per come è disegnato, non è un Senato delle autonomie perché in esso siederanno i rappresentanti delle regioni senza alcun vincolo di mandato, e non i rappresentanti dei governi regionali, come invece avviene in Germania (altra bufala).

Restano in piedi le differenze tra regioni a statuto ordinario e regioni a statuto speciale, la cui riforma è rimandata ad un domani imprecisato (altro atto di fede).

I tempi certi per la discussione delle leggi di iniziativa popolare non compensano l’aumento delle firme necessarie per la loro presentazione che, passando da 50.000 a 150.000, limitano di fatto la partecipazione dei cittadini. In questa (brutta) direzione va anche l’innalzamento delle firme da raccogliere per la presentazione di referendum.

Resta l’anomalia del voto per una riforma della Costituzione i cui effetti sono strettamente connessi alla legge elettorale con la quale si sceglieranno i rappresentanti della Camera (ennesimo atto di fede).

Timori fondati sorgono per il pluralismo nella scelta degli organi di controllo che non possono essere nell’esclusiva disponibilità delle maggioranze di turno.

Da ultimo, pare anche che l’abolizione del CNEL, additato come esempio supremo di sperperi e consociativismo,  non ci sarà.

Potrei continuare.

In generale non mi convince nemmeno un po’ l’idea che vada bene qualsiasi cosa pur di fare qualcosa. Sono sinceramente stanco di compromessi al ribasso. Di questo passo si arriva al peggio, e non è del peggio che abbiamo bisogno. Non più.

Molti sono spaventati dal dopo, e quindi indotti a votare si per evitare un salto nel buoi che solo Renzi evoca.

La mia modestissima opinione è che, in caso di vittoria del no, Renzi o non Renzi, sarà cambiata rapidamente la legge elettorale con un accordo PD/NCD/ALA/FI per arrivare ad un sistema proporzionale che spalanchi le porte a grosse koalition modello tedesco ed eviti il rischio di vittoria di M5S. L’Europa sarà contenta, ovviamente. Quindi sostanzialmente si andrà avanti esattamente come adesso. Del resto trovatemi le differenze tra Verdini, Alfano, Formigoni e Berlusconi.

La sinistra? Non pervenuta. Fuori da giochi. Per suoi demeriti. Per sua incapacità di interpretare e rappresentare con credibilità i fenomeni socio-culturali che investono l’Italia, l’Europa, il Mondo. Ma questa è un’altra storia.

Ad ogni modo ricordate, come ha detto uno bravo, che lunedì il sole sorgerà ancora.

Buon voto a tutti.