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Piccola storia di Sinaf

Bangladesh-Bandiera

SInaf è del Bangladesh. È il mio fornitore ufficiale di fazzolettini. Non il solo, ovvio. Penso che se in famiglia soffrissimo di rinite cronica avremmo meno fazzoletti, in giro, tra casa, macchine, zaini, borse, tasche.

Sinaf lo trovi ogni giorno su via Nomentana all’angolo con via Zanardini. Montesacro alto, quasi Talenti. Mattina e pomeriggio. Sole e pioggia. Caldo e freddo,

Sinaf è felice, in questo periodo. Dopo quattro anni torna nel suo paese. Si sposa.

Stamattina, mentre passavo, mi ha solo detto: “Venerdì sera! Venerdì sera!”.

E niente, glielo leggi negli occhi, alle persone, quando sono felici.

Spero che il mio Paese non sia stato troppo stronzo con te, in questi quattro anni. E se lo è stato, me ne scuso.

Buona vita Sinaf. Con la tua famiglia, tua moglie, i tuoi affetti, i tuoi  amici, com’è giusto che sia.

Franca

Stamattina ho accostato la macchina e scattato questa foto, ad un incrocio che potrebbe essere sotto casa di chiunque, a Roma come in qualsiasi altra città.

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E’ sfocata, è vero. Ma guardandola ho pensato che fosse giusto così.

I fiori sono per Franca (il nome l’ho scoperto solo in questi giorni), che potevi incontrare quasi tutte le mattine mentre chiedeva l’elemosina. E così era diventata un’immagine sfocata nelle nostre vite.

Presente. Quasi una certezza vederla lì, al passaggio.

E poi il moto perpetuo che mette fuori fuoco molto di ciò che ci circonda, al passaggio.

 

Una passione finita (e mi dispiace)

Moser.

Il mio idolo era Francesco Moser. Saronni antipatico, ma bravo. E diventò campione del mondo a Goodwood, nel 1982. In volata, mi sembra. Qualche anno dopo Moser, comunque. Visentini aristocratico, andava in giro in Rolls-Royce, dicono, perché era straricco di famiglia. Ma gli piaceva crepare sulla bicicletta. Miro Panizza, il gregario per eccellenza. Hinault, bravo, non c’è che dire. Me lo trovai di fronte sull’Appia, a Marina di Minturno, quando passò di lì il giro del 1982 mi sembra, e ci portò a vederlo il maestro Tatta, perché stavamo alle elementari e quando passava il giro si fermava tutto. Ma il mio idolo era Moser, per gli altri non ce n’era. Tre Parigi-Roubaix di fila, e rompersi il culo sul pavè, giusto per entrare nella leggenda. Uomo da corse in linea, ma gli disegnarono per lui un giro d’Italia senza salite, nel 1984, e a Verona schiantò Laurent Fignon, in una cronometro che è rimasta nella storia. Ruote lenticolari, biciclette che sembravano arrivate dallo spazio. Quella stessa bicicletta che Moser utilizzò, sempre nel 1984, per polverizzare il record dell’ora. Cinquantunochilometriequalcosaallora, un treno a pedali, praticamente. Poi mi ricordo Marco Groppo. Maglia bianca ad un giro di nonmiricordoquando. Sparito nel nulla. E poi Bugno e Chiappucci. E Pantani. Chi non ha tifato Pantani. Appena la strada si impennava come la rampa del garage di casa, partiva. E non lo fermavi più. Sembrava che solo a guardarlo, dalla TV di casa,  sperando che battesse tutti, si potesse aiutare Marco a vincere la sofferenza che i pedali, la strada, il caldo, la fatica, ti mettono davanti. Poi ti batte la vita, e Marco se n’è andato, il giorno di San Valentino del 2004. Rimasi giorni a pensare a Marco e al suo gesto, in un periodo difficile anche per me. Ma poi torni a concentrarti sullo sport, o a quello che ne rimane. A Moser che nel suo anno d’oro praticava l’autoemostrasfusione, e tutti i grandi campioni degli anni ’90 e 2000 presi a farsi di qualcosa (s’è salvato Indurain, forse perché s’è ritirato prima che lo beccassero, o forse no). E allora capisco ancora la fatica, non c’è sostanza che ti tolga il dolore quando la strada sale, ma non ci credo più. Il ciclismo non mi appassiona più. Arrivo a dire, scusatemi, che sarebbe meglio legalizzarlo, il doping nel ciclismo, almeno partono tutti dalla stessa linea e poi chi è più bravo arriva primo. Ma così, non ci credo più.

A ciascuno il suo dolore

L’avevo segnalato, stanotte, questo post di Giulio. Ma alla luce del sole me lo sono riletto, con più attenzione. Letto, ascoltato. Perchè il dolore è un fatto personale, ciascuno si porta appresso il suo, come può, come sa. E quel dolore ci spezza le reni, ci devasta, ma ci conviviamo. E ci fa crescere. Senza troppi giri di parole.