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Si o no? Sarebbe facile, in fondo

Dare risposte immediate al possibilismo che pervade la sinistra italiana davanti alle ipotesi di alleanze post-voto con PD o con M5S. La destra no, quella no (ma chi è destra? Casapound? OK. Fratelli d’Italia? Bon. La Lega? Ci siamo. Berlusconi? Alfano? Ah son destra? Ma già è capitato in passato di governarci insieme? Davvero?).

Quindi, dicevamo, due domande semplici semplici che Pietro Grasso, o chi per lui, dovrebbe/potrebbe porre.

Per il PD: lo aboliamo il jobs-act, reintroducendo l’art. 18 e prevedendo come unica forma contrattuale il tempo indeterminato?

Per il M5S: la approviamo subito la legge sullo ius soli?

Due questioni cruciali, lavoro e cittadinanza. Se non si è d’accordo su questo, non c’è possibilismo che tenga. Restano solo le chiacchiere da campagna elettorale.

E per quelle abbiamo dato, grazie

Balle spaziali

La vulgata renziana vuole che si ripeta all’infinito la notizia della creazione di nuovi posti di lavoro grazie al combinato disposto di incentivi e jobs-act. Appare evidente che non si tratti di nuovi posti di lavoro ma di nuovi contratti. Ossia gente che già lavorava nel settore privato con differenti tipologie contrattuali e che adesso ha un contratto a tempo indeterminato con il jobs-act.  Il che di per sé potrebbe anche essere un bene, al netto del fatto che per tre anni sei sotto ricatto dell’azienda che può sempre licenziarti per motivi economici e darti qualche spicciolo di indennizzo (l’art. 18 serviva ad evitare questi abusi, non dimentichiamolo mai). I conti si faranno allo scadere dei tre anni di contratto, allora si vedrà quanti contratti a tempo indeterminato fatti con il jobs-act saranno effettivamente a tempo indeterminato  Ma al di là di ciò questo piccolo grande particolare nello storytelling (full of lies) del premier fa si che le persone, quando votano, di sta’ roba non possono fare a meno di ricordarsene. Perché vivono la loro immutata precarietà, o quella dei propri figli, sulla loro carne viva. Davvero, dell’aumento dell’occupazione (farlocca) tanto sbandierata non se n’è accorto nessuno.

I conti si fanno alla fine

Anzi, fra tre anni. Tanto bisogna aspettare per capire quale sarà stato l’impatto del jobs-act sul mondo del lavoro italiano. E sul precariato.

I 79.000 (ricordate questo numero, diventerà un mantra come 40,8) assunti grazie alle decontribuzioni introdotte nella legge di stabilità e quelli che verranno con il contratto a tutele crescenti sono una buona notizia ma, consentitemi, anche un’ovvietà. Se lo strumento prevalente (non unico, lo sappiamo) è quello del contratto a tutele crescenti, e soprattutto se è conveniente per le aziende, è ovvio che i nuovi assunti (oppure le altre forme contrattuali preesistenti che sono trasformate nel nuovo contratto) usufruiscano di quella tipologia di contratto.

Penso alla mia azienda. i 5 entrati nelle ultime settimane invece del contratto interinale avranno il contratto del jobs-act. Ma sempre precari sono, per i prossimi tre anni.

Il 27 marzo del 2018 sapremo se avranno meritato l’agognato contratto a tempo indeterminato o se saranno rimasti precari.

Il tempo, come sempre, sarà galantuomo.images

Le tutele di chi

Oggi entra in vigore il jobs-act. Fra tre anni avremo la conferma del suo fallimento, quando sarà evidente il numero di contratti a tutele crescenti ancora in vigore. Quanti, insomma, avranno passato la soglia dei tre anni. Saremo stati gufi indovini.

Intanto il principio è stato sancito: la tutela crescente. Tocca solo vedere la tutela di chi. Il CUI nella formulazione Boeri-Garibaldi ripreso nel DDL Nerozzi durante la scorsa legislatura, pur non essendo un provvedimento perfetto, stabiliva la tutela crescente del lavoratore. Nel corso della sua applicazione il soggetto tutelato era comunque il lavoratore, e si rendeva sconveniente per l’impresa liberarsene. Con il jobs-act il principio è rovesciato. Il soggetto tutelato è il datore di lavoro, che ha tutta la convenienza a liberarsi della lavoratore visto che alla fine dei tre anni il saldo tra sgravi fiscali e indennizzo è sbilanciato a suo favore. Calcio nel culo e ricomincia la giostra con un altro.

Quindi, dalle tutele crescenti del lavoratore, soggetto debole nel rapporto di lavoro, alle tutele crescenti del datore di lavoro.  Una cosa di sinistra, insomma.

Il Jobs Act, per quello che è

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Dall’intervista di Luciano Gallino a Micromega.

Scusi professore, lei parla di un progetto vecchio eppure il governo – che del nuovismo ha fatto un cavallo di battaglia – lo sponsorizza proprio per modernizzare il Paese. Dov’è l’imbroglio? 

Nel Jobs Act non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. E’ una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse della metà anni ’90. Inoltre si tratta di una legge delega, un grosso contenitore semivuoto che sarà riempito nei prossimi mesi o chissà quando. Non mi sembra un provvedimento che arginerà la piaga della precarietà né che rilancerà l’occupazione nel Paese. 

Una bocciatura netta. E del premier che giudizio esprime, molti iniziano a considerare il renzismo come il compimento del berlusconismo. E’ d’accordo? 

Per certi aspetti sì, il Jobs Act potrebbe tranquillamente esser stato scritto da un ministro di un passato governo Berlusconi. Non a caso Maurizio Sacconi è uno dei politici più entusiasti. Renzi continua nel solco di politiche di destra impostate sul taglio ai diritti sul lavoro, sulla compressione salariale e sulla possibilità di un maggiore controllo delle imprese sui dipendenti, vedi l’uso delle telecamere. 

In un recente editoriale su Repubblica ha contrapposto alla Leopolda renziana, la piazza della Cgil. Eppure in altre occasioni passate aveva espresso dubbi sull’organizzazione di Susanna Camusso, accusandola di aver “appannato la bandiera del sindacato”. Ha cambiato idea? 

Negli ultimi mesi ad esser cambiata è la Cgil. In diversi frangenti non ha contrastato i nefasti provvedimenti avanzati dai governi, come nel caso della riforma pensionistica. Ha accettato supinamente leggi micidiali e lo smantellamento del nostro welfare. SulJobs Act è stata incisiva mettendo in piedi una dura resistenza. E le divergenze tra Cgil e Fiom – che invece ha sempre mantenuto la barra dritta – ora sono minori, questo va salutato positivamente. 

Chi fa battaglie ideologiche?

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Fatemi capire: nella legge delega, sulla quale il governo oggi chiede la fiducia, scompare l’articolo 18, e però il governo stesso precisa che il voto di fiducia è sull’articolo 18?

Ma ha ancora senso avere un Parlamento, in questo Paese? Oppure a Renzi interessano solo deleghe in bianco?

Come dire: voi votate, poi il governo fa quel che cazzo gli pare.

 

Anche la flessibilità è quasi maggiorenne

downloadAscolto il Ministro Lupi e rabbrividisco. Sostiene che le imprese italiane hanno bisogno di flessibilità per uscire dalla crisi e loda i provvedimenti del governo contenuti nel decreto lavoro. A quando risale il “pacchetto Treu”?  Al 1997. Da 17 anni è stata legalizzata, nel nostro Paese, la flessibilità che è diventata precarietà a vita. Precarietà che ha devastato una intera generazione e i cui effetti si allungheranno anche sulla prossima. Disoccupazione al 12%, disoccupazione giovanile al 43% e ancora stiamo parlando di flessibilità per uscire dalla crisi? Con queste ricette fallimentari sperimentate da diciassetteannidiciassette il governo dovrebbe dare speranza a generazioni arrese e risanare l’economia del Paese, da ora al 2018?

La dottrina Sacconi

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Sottotitolo: precari a vita.

Nella nuova formulazione del Jobs-precario-act, della quale è noto l’ispiratore, sparisce l’obbligo di assunzione a tempo indeterminato per le aziende che sforano il tetto del 20% di lavoratori precari.

Sostituita da una multa.

Ma che per caso la multa sarà più onerosa per l’impresa rispetto ad una assunzione? Eccerto che no.

Paghi e ti sarà dato.