Archivi giornalieri: 28 Febbraio 2013

Lettera a Bersani

Ma non è la mia. Sta qui.

E allora io dico, caro Bersani, che tu sei il segretario democraticamente eletto da più di tre milioni di persone e io non ti lascio in pasto ai lupi. Hai ancora la mia fiducia, perché nonostante tutto sei una persona seria, hai la mia stima e il mio rispetto.

Ma ora niente tatticismi, distinguo, corse al ribasso, strategie anvedichefurbochesono, ripescaggi e funambolismi.

Ora mi tiri fuori un programma di sinistra moderna con i controcavoli, pochi punti, chiari, sostenibili, che siano la ripartenza. Che sia la redenzione.

E poi si va in Parlamento e ci si va a cercare i voti uno per uno e Dio benedica l’Art.67 e i Padri Fondatori, che poi torniamo sempre lì quando il gioco si fa duro, giusto ?

E se Grillo o chiunque altro dice di no, che si prenda la sua responsabilità davanti alla Nazione e muoia Sansone che almeno si porti dietro i Filistei.

Noi non giochiamo più, vogliamo far vedere al Paese cosa vuol dire essere una sinistra moderna, radicata, consapevole. Vogliamo far capire che non è spocchia la nostra, ma desiderio insoddisfatto di volare.

E poi, appena possibile, si faccia il congresso e si cambi. Si cambi tutto e tutti. Testa, cuore, anima e interiora.

Mi dispiace ma è giusto che sia un amico a dirvelo. E’ finita, dovete fare un passo indietro.

Avete subito tante, troppe sconfitte, spesso non per colpa vostra, ma anche e soprattutto per colpa vostra. Ma un pregio lo devo riconoscere.

Il PD è l’unico partito in Italia dove c’è una speranza di successione, dove il nuovo non è emanazione eunuca del vecchio, ma sono teste e cuore e idee.

E mi riferisco a Civati e Renzi, per dire e per esempio, che sono due visioni del PD che sarà. Ed è più del doppio di quello che hanno gli altri.

E allora scelga il congresso oggi, quale dovrà essere il PD di domani e che voi possiate guadagnarvi il rispetto del Padre che viene “ucciso” quando i figli sono pronti a prendere il proprio posto e non il disonore dell’oligarca, che muore nel suo bunker solitario.

Facile, troppo facile ? Banale, semplicistico, analisi superficiale. Sì, forse è così.

Questa non è una piattaforma politica, un manifesto programmatico. Queste sono lacrime, amico mio, questa è una preghiera.

C’è anche la questione del lavoro

Da risolvere in questi mesi, per il governo che verrà (se verrà). Oltre alle cose che sappiamo. Allora potrebbe essere il caso di abbandonare le perifrasi tipo “dobbiamo dare un pò di lavoro” o “occorre che il lavoro precario costi più del lavoro dipendente”. Perchè non inserire, tra le cose da fare, anche il reddito minimo di cittadinanza e il contratto unico di ingresso per i neo-assunti? Giusto per scendere nel concreto.

Eccone un altro

Che scrive al posto mio. Moreno. Leggete fino in fondo.

Ho già letto molti commenti sull’esito del voto e su cosa si deve fare adesso. Alcuni di questi li condivido, altri meno.
A mente fredda, ma non per questo più lucida, faccio una serie di considerazioni.
La prima è che secondo me Bersani non ha sbagliato campagna elettorale. Come, non ha sbagliato? Tu che lo hai sempre criticato, ora lo difendi? No, non lo difendo, ma Bersani ha fatto la campagna elettorale che lui aveva detto di fare. E’ rimasto sé stesso fino in fondo, non è mai cambiato. Scegliendo Bersani, scegliendo l’usato sicuro, la campagna elettorale avrebbe avuto queste caratteristiche. Mi dispiace sentir dire da chi ha sostenuto in modo convinto il segretario alle primarie, che si doveva fare una campagna più aggressiva, più moderna. Non era possibile perché avrebbe dovuto diventare una persona che Bersani non è. A differenza di altre volte, questa volta gli errori sono collettivi, non singoli. Ha ragione ancora una volta il segretario quando risponde, a chi gli chiedeva se con Renzi si sarebbe potuto  fare meglio, che lui è stato scelto da 3.2 milioni di elettori delle primarie. Anch’io che non l’ho votato, nemmeno come segretario nel 2009, mi sento politicamente responsabile del risultato. In un gruppo si vince e si perde tutti insieme.
Detto questo, ed esprimendo la mia solidarietà umana a Bersani del quale ho stima oggi più di ieri, secondo me la sconfitta non è figlia della campagna elettorale, ma di una serie di errori iniziati nel 2009 con il congresso quando gli elettori del Pd hanno di fatto scelto che si doveva assolutamente ritornare nel solco della tradizione che arrivava dal Pci, Pds e Ds dal quale Veltroni ci aveva allontanato e che si poteva vincere solo con la politica delle alleanze, limitando il più possibile le nuove forme di partecipazione (in quel congresso Bersani proponeva il registro degli elettori, poi applicato solo per le primarie del 25 novembre).
La politica delle alleanze si è rilevata non solo inutile, ma controproducente perché per mesi il Pd si è spaccato prima su Di Pietro, poi su Casini, poi su Vendola ed infine su Monti. Tutti questi soggetti, si sono rilevati poca cosa in termini di consenso. L’alleanza con il centro, fatta per mezzo di un partito residuale come l’Udc, è stato uno degli abbagli più clamorosi, così come pensare che con Vendola tutta la sinistra sarebbe accorsa a votare la coalizione Italia Bene Comune.
Proprio questa politica delle alleanze ha di fatto ritardato l’avvio delle primarie perché Casini non avrebbe mai partecipato a questa nuova forma di democrazia. Così, l’assemblea nazionale non ha mai votato gli ordini del giorno sulle primarie per la premiership e quelle delle parlamentarie. Solo quando si è rotto definitivamente con Casini, si sono fatte le primarie e solo a dicembre si è deciso di farle anche per la scelta dei parlamentari. Meglio tardi che mai, ma i tempi in politica sono fondamentali.
Poi viene il tema del rinnovamento. Bene, Bersani disse che lui avrebbe garantito il cambiamento che doveva essere forte, ma non troppo e non necessariamente solo generazionale. E’ vero, molto è stato fatto ma privilegiando i fedeli all’ortodossia ed emarginando gli spiriti più critici. Così i nuovi sono Orlando, Fassina, Orfini, insomma, i cosi detti giovani turchi che sono sì giovani, ma hanno in testa lo stesso partito che ha in testa Bersani, D’Alema, ecc. ecc.  Un partito composto da brave persone che credono di essere meglio di tutto il resto e proprio per questo incompresi. Insomma, un tipico atteggiamento aristocratico che niente ha a che fare con l’essere di sinistra. La sua massima espressione si è avuta proprio in occasione delle primarie di novembre quando ogni cittadino che fosse in qualche modo sospettabile di essere stato un elettore di centro destra, doveva essere cacciato perché il suo scopo era quello di far vincere Renzi, anche lui visto come un berluschino, che avrebbe di fatto consegnato il paese a Berlusocni.
Oggi, poi ci chiediamo come mai non prendiamo i voti dei delusi del centro destra andati,  in gran parte, a Grillo. Ecco, Grillo e i grillini. Tutti in questi due giorni hanno rivisto la dichiarazione di Fassino che suggeriva a  Beppe Grillo di fondare un partito e poi contarsi. Quando si dice la lungimiranza di questa classe dirigente. Qualche mese fa, due esponenti del movimento mi dissero che avevano votato Pd e partecipato alle primarie nel 2007 e nel 2009, ma non vedendo reali segni di cambiamento e, convinti che il paese dovesse cambiare profondamente, non potevano votare ancora un partito che a parole si diceva pronto a questo compito, ma che nei fatti non era in grado nemmeno di cambiare sé stesso. Cambiare non solo il suo personale politico, ma il modo di fare politica. Ecco, se si parla con i vecchi compagni per loro esiste solo un modo di fare politica che è quello che arriva dagli anni settanta: riunioni, convegni, dibattiti, feste di partito, banchetti, volantinaggi. Oltre a non comprendere che ci sono nuove forme di partecipazione, quando ci si confronta con loro (per fortuna non tutti) ti trattano come uno che non capisce. Sono bravi compagni, da elogiare per tutto l’impegno che ci mettono, ma che non riescono ad essere più in sintonia con il paese, ma solo con quello che arriva da quegli anni e da quelle esperienze. Necessario, sì, ma non sufficiente per vincere le elezioni.
Lo so, è una critica pensante perché il problema non è solo politico , ma permettetemi quasi antropologico perché fintanto che la base del Pd sarà questa difficilmente il Pd potrà diventare qualcosa di diverso a meno che siano gli stessi dirigenti nazionali di oggi che, compreso il problema, si mettano realmente a servizio di coloro che queste cose le sostengono da tempo.
Lo so che è difficile, ma credetemi è l’unica via d’uscita altrimenti molti altri se ne andranno e il Partito Democratico assomiglierà più gruppo di reduci e combattenti che a un partito politico.

Tristezza

Per il PD del Lazio che non elegge, nel nuovo consiglio regionale, nemmeno una donna. A parte M5S, è così anche per gli altri partiti, anche se mi importa poco di quello che fanno gli altri, sinceramente. Forse è il caso di mettere mano alla legge elettorale regionale, che dite. Per la cronaca non ce l’ha fatta nemmeno Jean-Léonard Touadì, al quale ho dato il mio voto. Che dire, la crema del PD romano si è distribuita tra Camera e Regione, chi con merito indubbio, chi meno. Ma al di là dei risultati elettorali, il PD romano rischia seriamente di non essere capace di offrire risposte adeguate allo tsunami grillino, tanto nella leadership quanto nei metodi, orfano della candidatura di Nicola Zingaretti. Le elezioni comunali sono alle porte, e all’orizzonte non si vede una proposta credibile del PD per la guida della città. Sassoli e Gentiloni, con tutto il rispetto, sono perdenti in partenza contro l’ondata M5S che rischia seriamente di vincere al ballottaggio. Serve altro.