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Le tutele di chi

Oggi entra in vigore il jobs-act. Fra tre anni avremo la conferma del suo fallimento, quando sarà evidente il numero di contratti a tutele crescenti ancora in vigore. Quanti, insomma, avranno passato la soglia dei tre anni. Saremo stati gufi indovini.

Intanto il principio è stato sancito: la tutela crescente. Tocca solo vedere la tutela di chi. Il CUI nella formulazione Boeri-Garibaldi ripreso nel DDL Nerozzi durante la scorsa legislatura, pur non essendo un provvedimento perfetto, stabiliva la tutela crescente del lavoratore. Nel corso della sua applicazione il soggetto tutelato era comunque il lavoratore, e si rendeva sconveniente per l’impresa liberarsene. Con il jobs-act il principio è rovesciato. Il soggetto tutelato è il datore di lavoro, che ha tutta la convenienza a liberarsi della lavoratore visto che alla fine dei tre anni il saldo tra sgravi fiscali e indennizzo è sbilanciato a suo favore. Calcio nel culo e ricomincia la giostra con un altro.

Quindi, dalle tutele crescenti del lavoratore, soggetto debole nel rapporto di lavoro, alle tutele crescenti del datore di lavoro.  Una cosa di sinistra, insomma.

Cose semplici e banali

Che poi uno dice dov’è che s’è consumato lo strappo, dov’è che s’è capito che un gruppo di giovani dirigenti del PD che, passando da Piombino, iMille, Albinea, Bologna e fino alla Leopolda 1 sembravano poter marciare uniti contro la vecchia classe dirigente e invece erano, in definitiva,  del tutto incompatibili.

Ecco dove s’è consumato lo strappo:

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Quando si è scelto di stare dalla parte di un altro capitano coraggioso, di chi porta la sede della propria società all’estero per pagare meno tasse, di chi vive il ruolo del sindacato come un fastidio, di chi comprime diritti, di chi costringe a firmare contratti con la pistola puntata alla tempia, invece di scegliere gli operai.

Forse è l’ora di alzare il culo dalla sedia, in occidente

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E fare qualcosa di concreto per non ammazzare definitivamente la speranza di tanti giovani musulmani di vivere in un paese normale.

Perché un uomo come Hafez, che oggi ha 40 anni, è nato, vissuto e cresciuto con una certezza: l’assenza di alternative. “In Siria, nel 2011, ci abbiamo creduto. Non lo nego, anche se oggi mi sento un ingenuo. Ho immaginato che una grande onda si fosse sollevata, che milioni di giovani arabi avessero preso in mano il loro futuro. Lo ricordate il discorso di Obama all’università del Cairo nel 2009? In fondo era quello che ci diceva: non faremo più gli errori del passato, non useremo la forza per la nostra agenda, ma vi sosterremo se ci proverete da soli. E lo abbiamo fatto, facendoci massacrare. Le parole d’ordine sono semplici, forse troppo per voi che siete abituati alla filosofia. Per noi era solo immaginare una vita senza corruzione, dove un lavoro lo trovi se sai fare qualcosa e non se tuo padre è nelle grazie del clan al potere. Dove, in un caffé, puoi dir la tua senza sparire nella notte. Dove le risorse dei paesi arabi non siano il conto privato all’estero di famiglie di satrapi, ritenuti grandi statisti, ma vengano distribuite a tutta la popolazione. Ho fallito ancora: nessuno ha appoggiato la rivoluzione siriana dell’inizio, lasciandola sprofondare in un incubo sanguinoso. Ho deciso che non posso più buttare la mia vita, ho colto l’unica opportunità che mi restava: farmi profugo, farmi esule. Perché altre opportunità non me ne hanno date”.

Il resto qui.

Any given friday (ovvero dello sciopero generale)

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Seguo abbastanza allibito le polemiche sullo sciopero generale proclamato per venerdì 5 dicembre.

Maledetto venerdì.

Due parole, sul piano strettamente politico, le ha dette l’amico Gianpaolo:

“Io capisco i renziani-renziani. I fighetti alla Serra che lo sciopero lo vorrebbero abolire o limitare, quelli che in realtà hanno fatto molti “ponti” nella loro vita ma non sanno cosa sia perdere una giornata di salario, con la crisi che morde. E’ la loro natura, non possono cambiarla.
Ma quelli acquisiti, quelli che fino a ieri in piazza ci scendevano, quelli che si definivano “di sinistra”, beh, quelli mi fanno un po’ schifo e anche un po’ paura.”

Aggiungo: quale sarebbe il vantaggio per la CGIL, e per il lavoratori, scioperare di venerdì? Il ponte? Cioè, per fare un giorno di vacanza in più un lavoratore, di questi tempi, rinuncerebbe senza colpo ferire ad una giornata di lavoro, che in busta paga fanno sempre 60-100 €? Come dire, bruciarsi un mese di 80€ renziani per far sega al lavoro? Ma non sarebbe più furbo prendere un giorno di ferie, come in effetti molti, di quelli meno sindacalizzati, fanno? E la CGIL, cosa ne guadagnerebbe, forse milioni di aderenti allo sciopero? E come si fa, se le aziende sanno benissimo quali siano i giustificativi che i lavoratori utilizzano per il giorno di assenza?

E poi consentitemi: si dice che il sindacato non deve fare politica, che non può permettersi di contrattare con il governo le leggi, se vuole può farsi eleggere in parlamento. Si chiama disintermediazione, che è l’opposto della concertazione. Si dice anche che lo sciopero è uno strumento obsoleto. Ma allora i lavoratori quali strumenti hanno per far sentire la propria voce?

Una gara di peti a Piazza San Giovanni? Le mazzate? Andare in giro con il culo di fuori? Attaccarsi un cartello in fronte con su scritto fate di me quello che volete?

Oppure, davvero, si sta facendo strada l’idea che i diritti sono le elemosine che il tuo datore di lavoro, forte delle pseudo-riforme in vista all’orizzonte ti concede, perché l’imperativo è produrre con un costo del lavoro sempre più basso, e vinca il più forte?

Ma l’idea che un lavoratore scioperi per difendere i diritti di tutti noi, proprio no, veh? Molto meglio mettere i lavoratori gli uni contro gli altri.

Divide et impera.

Il Comune di Roma che non rispetta i lavoratori

È di queste ore la polemica in atto nella capitale per il licenziamento dell’orchestra e del coro del Teatro dell’Opera. Le parole d’ordine sono esternalizzare e risparmio. Chi se ne frega se le persone lavorano lì perché hanno vinto un concorso. Chi se ne frega se la cultura viene trattata al pari di una merce qualsiasi.

Ma non è l’unico caso che vede il Comune di Roma impegnato nel comprimere spazi di mediazione con i lavoratori. Ci sono situazioni di cui non si sa nulla, che non fanno clamore sulla stampa, ma che sono altrettanto drammatiche. Nelle quali la logica renziana del prendere o lasciare sta facendo scuola. Rapidamente.

Prendete la Formazione Professionale di Roma Capitale.

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Forse non tutti sanno che a Roma esistono delle scuole professionali gestite dal Comune. Sono spesso in zone periferiche, difficili. Raccolgono studenti che sono in molti casi già stati espulsi dai circuiti formativi “tradizionali”. Ci sono molti ragazzi con genitori in galera, con situazioni familiari disastrate. Ragazze che hanno subito violenze.  Ragazzi vittime di bullismo. Oppure con disabilità non dichiarate.

Queste scuole sono nella maggior parte dei casi abbandonate a sé stesse, in mano a dirigenti che di professionale hanno ben poco (l’aggancio  giusto in Comune non manca mai) e per i quali la didattica è l’ultimo dei problemi. Ad esempio se un corso prevede, che so, 100 ore annuali di matematica, capita spesso di concentrarle nell’ultimo mese di scuola costringendo i ragazzi a fare 5 ore al giorno di matematica piuttosto che distribuire le ore nell’arco dell’anno scolastico.

Per i docenti, pressoché tutti precari, non è previsto alcun percorso formativo che dia loro strumenti minimi per relazionarsi con studenti difficili, che in molti casi avrebbero bisogno di uno psicoterapeuta o di un assistente sociale.

È capitato che i docenti siano stati minacciati da studenti e da genitori. Alcuni sono stati aggrediti, all’interno delle scuole, e mandati in ospedale.

Come dicevo la maggior parte degli insegnanti sono precari, alcuni da lustri e lustri, e fino all’anno scorso si offriva loro almeno un contratto a tempo determinato. Per 500-600 ore di insegnamento all’anno e poche centinaia di Euro al mese.

Adesso si è passati alla partita IVA. Prendere o lasciare. Pena la cancellazione dalle graduatorie.

Ecco a voi le politiche lavorative 2.0 del Comune di Roma. All’epoca del Jobs Act.

Vi terrò aggiornati.

Ricominciamo (o proseguiamo, fate voi)?

La legge 40 è stata demolita dalla Consulta, ma forse al Ministero della Salute ancora non è del tutto chiaro.

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E i diritti restano diritti.

 

Anche la flessibilità è quasi maggiorenne

downloadAscolto il Ministro Lupi e rabbrividisco. Sostiene che le imprese italiane hanno bisogno di flessibilità per uscire dalla crisi e loda i provvedimenti del governo contenuti nel decreto lavoro. A quando risale il “pacchetto Treu”?  Al 1997. Da 17 anni è stata legalizzata, nel nostro Paese, la flessibilità che è diventata precarietà a vita. Precarietà che ha devastato una intera generazione e i cui effetti si allungheranno anche sulla prossima. Disoccupazione al 12%, disoccupazione giovanile al 43% e ancora stiamo parlando di flessibilità per uscire dalla crisi? Con queste ricette fallimentari sperimentate da diciassetteannidiciassette il governo dovrebbe dare speranza a generazioni arrese e risanare l’economia del Paese, da ora al 2018?

Lontano dagli occhi (povertà 2014)

E dopo i 500 € di multa a chi dà il cibo ai senzatetto, adesso si passa (o si ritorna, non ricordo), alle panchine anti-clochard. Vai a fare il povero da un’altra parte, grazie.

La sublimazione della sindrome di NIMBY.