Oggi #PatrickZaki compie trent’anni.
Li passa chiuso in una cella di un carcere speciale egiziano, che è molto ma molto ma infinitamente peggio di Rebibbia o di Poggioreale o di qualsiasi carcere possiate immaginare.
Sta là dentro non perché sia un pericoloso criminale, che già sarebbe una condanna durissima, visto che dove sta lui i carcerati muoiono come mosche e sono sistematicamente torturati, ma semplicemente perché ha espresso una opinione di dissenso rispetto al regime criminale che regna nel suo Paese.
Adesso provate ad immaginare vostro figlio chiuso in carcere, senza un processo, torturato solo perché ha espresso un’opinione.
Ci riuscite?
No vero?
E che è, figlio a me ‘sto Patrick?
Fatti suoi, se la sarà cercata.
Come Giulio Regeni, come Stefano Cucchi, come Federico Aldrovandi.
Ecco, a me della storia di Patrick, e degli altri, oltre che la storia in sé colpisce l’indifferenza. L’indifferenza dell’opinione pubblica, che non è la bolla di ‘sti social che già basta e avanza per le schifezze che ci si trovano scritte e dette, e che, anzi, visto che ciascuno alla fine si sceglie gli amici più affini può anche sembrare che dopotutto i social sono molto attenti a certe questioni che ci stanno a cuore. No, è il menefreghismo che senti a pelle quando magari ti trovi a parlare con qualcuno realmente e capisci che di ‘ste cose a chi ti sta di fronte non gliene frega proprio niente, e che possiamo rinunciare ai commerci con l’Egitto per due che se la sono andata a cercare?
E la stessa indifferenza sostanzialmente ce l’hai in chi governa il Paese, perché a chiacchiere sono tutti bravi, ma i fatti, per Patrick, stanno a zero.
Insomma, provateci ogni tanto a camminare nelle scarpe di qualcun altro.
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La verità di Dario e Massimo
Angelo.
Legalità.
Verità.
Giustizia.
Dolore.
Pazzia.
Falsità.
Opportunismo.
Queste le parole chiave del libro di Dario Vassallo “La Verità Negata”.
Leggetelo il libro di Dario. Troverete tutto quello che Dario, Massimo, la Fondazione, gli amici hanno fatto in questi anni, a partire dal quel maledetto 5 settembre del 2010. Le persone che hanno incontrato, i progetti che hanno portato avanti, le follie che sono diventate realtà, i tradimenti, le delusioni, i silenzi, i ripensamenti, le seconde possibilità. E troverete anche la soluzione giudiziaria al caso dell’assassinio di Angelo Vassallo. Dario non fa i nomi, ma se leggerete le pagine del suo libro fino alla fine, la soluzione sarà lì, sotto gli occhi di tutti. E toccherà a chi di dovere mettere insieme tutto ciò che è avvenuto per arrivare alla verità e alla giustizia.
Dario, e Massimo, hanno un dono, raro di questi tempi. Sono persone sincere, leali e generose che chiedono a chi gli sta davanti altrettanta sincerità, lealtà e generosità. Per il periodo nel quale abbiamo condiviso un pezzo di strada mi sono sentito davanti a Dario nudo, felicemente nudo, consapevole del fatto che l’unico modo per avere la sua fiducia incondizionata fosse quello di essere leale e sincero come sa essere lui. Io credo che la capacità di “fiutare” le persone sia il frutto degli anni passati in mare a capire le difficoltà della navigazione, a sapersi muovere tra le onde, a combattere con i pesci, a pensare come riportare a casa la pelle dopo aver lavorato duro. Cose semplici, condivise con persone altrettanto semplici, ma che in qualche modo ti sensibilizzano rispetto al mondo che ti circonda, mettono in moto altri sensi.
Nel libro anche Dario si mette a nudo, e non ha alcun pudore parlare del suo dolore per l’assassinio di Angelo, della delusione provocata dai falsi amici, dalla disillusione dovuta all’inerzia e alla insensibilità delle istituzioni e delle personalità politiche, soprattutto quelle del PD, che non dimentichiamo era il partito al quale Angelo era iscritto quando fu ucciso.
Non ha alcun pudore, Dario, a confessare quanto abbia sottratto agli affetti, alla famiglia, coltivando anche il dubbio della pazzia, per soddisfare la sua sete di giustizia e di verità, in nome di Angelo e della sua idea di politica, fatta di valorizzazione della bellezza, di amore per il bene comune, di legalità come principio cardine dell’agire di un amministratore, di un Sindaco, di un uomo.
E queste sue debolezze diventano la sua forza, quella forza che ha fatto superare i momenti difficili, i momenti neri, i momenti in cui tutto è in discussione, anche la tua stessa vita.
Perché poi c’è la speranza, e non a caso la festa che si celebra ogni anno per Angelo si chiama proprio Festa della Speranza, quella speranza che tutto tiene insieme, che spinge a continuare così (mai fermi, mai domi è il mantra della Fondazione) nella consapevolezza che solo in questo modo si potrà tenere in vita Angelo e le sue idee.
Grazie Dario, grazie Massimo, grazie a tutte le persone che avete incontrato in questi anni e che vi hanno sostenuto.
Storia di tradizioni, di sapori e di sentimenti
Questa storia parte da qui.
Anzi no.
Questa storia parte materialmente da Valledolmo, in provincia di Palermo. Ma ha una genesi molto più profonda, che ha a che fare si con la terra, ma soprattutto con le radici dei sentimenti. E se avrete la pazienza di leggere, qualcosa lo intuirete.
Dicevamo, Valledolmo, provincia di Palermo, dove viene coltivato il pomodoro siccagno. Se ne volete sapere di più guardate qui.
Il primo pensiero va a chi raccoglie il pomodoro. La fatica che sa fa a spaccarsi la schiena noi comuni mortali, fortunati a non dover fare lavori manuali massacranti per campare, possiamo solo immaginarla. E quindi tutto il mio rispetto ai lavoratori dei campi, agli operai agricoli, ai coltivatori onesti che non sfruttano mano d’opera, che non riducono le persone in schiavitù come purtroppo ancora oggi nel nostro Paese capita troppo, troppo spesso.
Nel caso specifico un piccolo produttore locale ha fornito la materia prima, raccolta il giorno precedente l’acquisto con le sue stesse mani nelle ore più fresche (si fa per dire) della giornata.
Caricata la macchina, si torna verso casa, si scaricano i 300 kg di pomodori e si aspetta il giorno fatidico per fare la salsa (anzi i giorni fatidici, perché il giorno dopo la salsa tocca ai pelati, ma questo lo vediamo poi).
GIORNO 1 – LA SALSA
Che poi c’è un giorno -1, quello della selezione dei pomodori: quelli perfetti, senza ammaccature, senza puntini che lasciano presagire la possibilità della presenza di qualche difetto interno, destinati ai pelati. Gli altri, invece, buoni per la salsa. Su 300 kg di prodotto, lo scarto, i frutti marciti, ammuffiti, andati a male, sarà stato di un paio di kg al massimo. Quando si dice la qualità della materia prima.
Il tutto fatto da chi sa, dal capo.
Che poi c’è anche un giorno zero, che è quello durante il quale si lava il pomodoro, si asciuga per bene e si sistema nelle cassettine pronto per l’indomani.
Si parte da qui, dalla cassetta scaricata. E poi a seguire.
Mani sapienti ripongono i pomodori, perfettamente asciutti, nelle ceste, pronti per il giorno dopo.
Dicevo, perfettamente asciutti. La prima cosa che si impara è che l’acqua è nemica del pomodoro, della salsa, dei pelati, del lavoro che stai facendo e della fatica che stai per compiere. L’acqua, croce e delizia della Sicilia dei serbatoi sui tetti delle case, centellinata in un regione ricca d’acqua che però non arriva alle case dei suoi abitanti, anno del Signore 2020.
E quindi, il giorno 1 sveglia alle 5.30, ancora un po’ a poltrire poi si sale in terrazza, il tempo di vedere sorgere il sole dallo spicchio di visuale che ancora consente di vedere il mare, tra le case costruite senza senso, pensate apposta da menti malate per deturpare il paesaggio, un caffè e via, alle 6.30 tutti operativi.
Prima operazione, il taglio dei pomodori. Per due motivi: eliminare eventuali imperfezioni che potrebbero sempre nascondersi all’interno, e poi per facilitare la prima cottura.
Ok, il taglio, ma come tagliare? E qui interviene la sapienza, l’esperienza, la tradizione. Di chi ha fatto questo lavoro prima di te e che a sua volta l’ha imparato dai suoi genitori, le cose belle che si tramandano, che si insegnano ai meno esperti. E tu, alle primissime armi, non puoi che farti un bagno di umiltà e ascoltare, guardare come si fa, provare a replicare l’esempio. All’inizio tra qualche cenno di dissenso, la necessità di ulteriori spiegazioni per chiarire il concetto. Poi inizi timidamente a prendere la mano, come in tutte le operazioni che seguiranno, e il silenzio diventa approvazione, e sai che stai facendo bene, allora vai, e arrivi a questo.
Che poi questo vuol dire una pentola da 30 litri nella quale ci sono una quindicina di kg di pomodori fatti diciamo a metà ma ancora belli sodi che devono, per quanto possibile, essere ridotti in poltiglia per poi essere avviati al fuoco, operazione fondamentale perché se si mettesse tutta la mappazza subito sul fuoco il calore farebbe attaccare tutto e addio salsa, invece con la prima spremitura esce quel quantitativo di polpa e di liquido che consente di procedere alla prima cottura con un po’ più di tranquillità. Allora, chinato sul pentolone ho immerso le mie mani e iniziato a spremere, e spremere, e spremere. Rimestare e spremere. Dopo cinque minuti (vabbè, sono fuori allenamento, lo so), dico 5 minuti, avevo le mani anchilosate e le braccia mi stavano per cadere e pensi alle nonne, a quelle loro braccia che pure dopo averne viste e fatte tante per decenni stanno ancora là a impastare, e pensi alle donne in generale e alle cose di fatica che spesso solo loro fanno e tu ti chiedi come fanno a farle, e insomma ti chiedi tutto questo, senti il dolore sulle tue di braccia e ti senti tanto una merda.
Detto questo, arriva fortunatamente subito l’automazione, che ha la forma salvifica di un trapano da muro al quale viene attaccata anziché una puntazza un attrezzo per impastare calce, gesso, cemento, tipo frusta di quelle che si hanno in casa per fare i dolci ma molto più grande, e il gioco è fatto. Una innovazione introdotta quest’anno che riduce la fatica fisica tanto nello schiacciare i pomodori quanto nel mescolarli nel pentolone che sta sul fuoco per non fare attaccare tutto. In questo modo, a detta di chi sa, tutto diventa una babbiata. E, vi garantisco, le mie braccia stanno ancora ringraziando.
A questo punto le cose procedono abbastanza spedite. Abbastanza. Da quando inizia a bollire l’intruglio (ciascuno fa il suo, da queste parti al pomodoro in cottura si aggiunge solo una cipolla e basta) si aspettano altri venti minuti, dopodiché si può passare alla fase successiva, ossia la spremitura con annessa separazione delle bucce.
Dai, chi non ha mia visto un arnese del genere in vita sua alzi la mano!
Tutto fatto? manco pe’ niente. Prima dell’imbottigliamento si rimette tutto sul fuoco e si aspettano altri venti minuti da quando la salsa riprende a bollire, venti minuti che possono essere di più o di meno a seconda di quanto è liquida la salsa. E la liquidità della salsa dipende da quanta acqua ha preso il pomodoro, e tenendo conto che da quando viene piantato il siccagno non viene mai innaffiato, basta una pioggia abbondante fuori stagione (vedi l’alluvione a Palermo e zone limitrofe di luglio) e ti ritrovi con un pomodoro molto più ricco di acqua.
Ora si può passare all’imbottigliamento, operazione delicata prima perché bolle tutto che pare lava fusa e non ti puoi distrarre un attimo (anche le bottiglie sono riscaldate fino ad essere roventi in formo primo per sterilizzare ancora il tutto, secondo perché lo shock termico tra bottiglia fredda e salsa bollente spaccherebbe la bottiglia e immaginate il macello) e poi perché fare casini dopo tutta la fatica sarebbe davvero un peccato. Prima di versare, però, non ci si può dimenticare una fogliolina di re basilico, il re degli aromi per il principe pomodoro, connubio inscindibile del mangiare semplice ma con un gusto indimenticabile.
A questo punto che fine fanno le bottiglie? Da queste parti dice che si fa la salsa ammantata. Che vor’ di’? Che le bottiglie roventi si mettono sotto le coperte, al caldo, protette da qualsiasi spiffero d’aria, dove la salsa continuerà la sua cottura fino al naturale raffreddamento.
A questo punto si sono fatte le 17.30, 11 ore circa di lavoro continuo, pausa pranzo sul luogo di lavoro a base di arancina, pezzi di tavola calda, birra attorronata. La tradizione vuole che fitusi per come si è si vada direttamente a mare per un bagno, e le tradizioni vanno rispettate. Così dritti dritti a mare, per un bagno ristoratore, e vi assicuro che dopo ore e ore in piedi la sensazione di mancanza di peso che si ha in acqua, unita alla frescura del mare, è poesia allo stato puro.
Al giorno 1 manca però una cosa: si può aspettare per assaggiare com’è venuta la salsa? E certo che no. E quindi, la sera, niente di meglio di un piatto di pasta con salsa freschissima, melanzane fritte, ricotta salata, basilico. Che ve lo dico a ffa’?
Diciamo che si può andare a letto soddisfatti, stracchi abbastanza. Che domani si riparte.
GIORNO 2 – I PELATI
Levataccia ma non come il giorno prima, alle 7.30 tutti operativi.
Il lavoro è completamente diverso rispetto al giorno prima, meno faticoso ma più ripetitivo, a catena di montaggio proprio.
Sciacquare rapidamente i pomodori.
Scottare i pomodori per poter togliere la buccia facilmente.
Pelare i pomodori e aprirli in due per togliere i semi all’interno (e controllare che non ci siano imperfezioni).
Riempire e chiudere i vasetti (cosa viene messo nel vasetto? Il basilico, come ti sbagli?).
Vedere le file di barattoli che si popolano è fonte di immensa soddisfazione.
Alle 13.30 la prima fase 1 è finita, le mani diventano così ma passa subito.
Questa la prima fase.
Come passa il tempo, mentre si lavora? Un po’ si parla del futuro, l’anno prossimo facciamo questo e quello, si prova a capire come migliorare la produzione, quale arnese potrebbe facilitare le operazioni. Un po’ si chiacchiera del presente, di quello che stai facendo, di come lo stai facendo, ci si prende allegramente in giro per i passaggi del controllo di qualità, che ogni tanto ti ricorda come tagliare, cosa tagliare, cosa è buono e cosa no. E in fondo, nel bene e nel male tutte le attività produttive funzionano così, e il pensiero non può che andare a chi in fabbrica o in qualcosa del genere ci lavora davvero, conoscendo esattamente quello che farà il giorno dopo e il giorno dopo e il giorno dopo ancora, per anni, per la vita. Timbri un altro giorno e tiri avanti, così cantano i fratelli Severini. E poi si parla del passato, si ricordano aneddoti, storie, ma soprattutto persone: sai cosa avrebbe detto la nonna se ti avesse visto a fare ‘sta cosa? Ti ricordi quella volta che la nonna…Perché in fondo parte tutto da lì, dalle persone care che non ci sono più ma è come se ci fossero sempre, stanno da qualche parte e tu lo sai, lo senti, ed è bello e confortevole ricordare con gioia le persone della tua vita, perché è esattamente così che ci vorrebbero guardare da dove stanno.
La seconda fase del pelato consiste essenzialmente nella bollitura dei vasetti.
Si sistemano accuratamente i vasetti nei pentoloni, in maniera tale da farli muovere. Due strati intervallati da pezze che attutiscono eventuali movimenti durante il sobollimento, un disco di acciaio a coprire il tutto e un bel mattone a fare da peso, coperchio e via col fuoco. Venti minuti di ebollizione e poi una operazione delicatissima. I vasetti bollenti vanno estratti dal pentolone con una pinza e riposti in un altro contenitore con la massima attenzione perché il minimo urto potrebbe spaccare tutto. Quindi si versa l’acqua bollente nel recipiente così la cottura dei pelati può continuare. Tempo un paio di giorni e si possono togliere i vasetti dall’acqua, pronti per essere consumati. Poi vi faccio sapere come è andato il primo assaggio.
Siamo alla fine di questa storia, e magari vi starete chiedendo perché raccontare tutto questo.
Da tempo ho sviluppato una mia personale necessità che è quella di scrivere semplicemente per fissare i concetti, perché davvero inizio a perdere colpi e se non scrivo non ricordo quasi niente. Quindi se volessi replicare tutto il procedimento, trovarlo già scritto mi aiuterebbe a non perdermi pezzi. Una esigenza tutta mia e puramente materiale, se così possiamo dire.
Però poi c’è anche l’esigenza del ricordo, della memoria, del racconto, del rinnovo della tradizione, perché senza memoria del passato, senza le radici, il futuro diventa maledettamente complicato.
Ibrahim e gli altri
Ibrahim è uno dei tanti che sopravvivono per strada nei dintorni della Stazione Tiburtina. Continua ad essere assistito dai volontari del Baobab. Ti colpisce perché con il freddo di questi giorni non indossa mai una giacca. Si presenta la mattina al massimo con un maglione, a volte in maglietta. E poi fa sempre il gesto del saluto, portarsi la mano al cuore dopo che la sua mano ha stretto l’altra mano. Come a voler salutare di continuo tutto il mondo che lo circonda. Lo vedi avvicinarsi tremante per il freddo a prendere la sua colazione, il suo bicchiere di tè o di latte caldo. Sempre rispettoso, sempre gentile.
Non conosco la sua storia. Myriam mi dice che ha problemi mentali, e che è difficile aiutarlo.
Ibrahim le prime volte prende la colazione e va via. Si allontana e resta nei paraggi continuando a battersi la mano sul cuore. Pian piano inizia a salutarmi, da lontano. Poi mi dà la mano, e ci battiamo la mano sul cuore. Oggi mi vede, ci salutiamo e poi mi tira a sé per abbracciarmi. Un gesto semplice che mi riempie il cuore. Devo dire grazie a Ibrahim, e a tutti gli altri che sto piano piano imparando a conoscere.
Sulla sua pelle
La pelle di Stefano Cucchi.
Chiunque abbia a cuore la verità, la giustizia e lo stato di diritto non può non vedere questo splendido film. E soprattutto non può non commuoversi, piangere, davanti all’agonia di Stefano, prima brutalmente picchiato dalle forze dell’ordine e poi lasciato morire dai medici mentre era nelle mani dello Stato, quello Stato nel quale i familiari di Stefano credevano e nel quale continuano a crederee a chiedere verità e giustizia
Se volete approfondire la storia di stefano, potete leggere sia il libro della sorella Ilaria Cucchi, sia il libro di Carlo Bonini.
La frase del film, per me:
“Ma quann’è che smetterete de di’ che siete caduti dalle scale?”
“Quando le scale smetteranno de menacce”.
Tutto sulla pelle
Il Bicicletterario, unico premio letterario dedicato al mondo della bicicletta, è alla sua terza edizione e in questo fine settimana si svolge la sua festa, con la premiazione delle opere e tanto altro ancora.
Ho lasciato Minturno praticamente dal 1990 anche se per molto tempo ancora ho provato, seppur a distanza, ad offrire il mio modestissimo e limitatissimo contributo alla vita politica del Comune. Come ho avuto modo di dire più volte la consapevolezza delle difficoltà che esistono ad operare nel campo culturale nel mio Paese di origine mi ha fatto apprezzare immensamente ciò che gli amici del Bicicletterario fanno da anni. Per me sono degli eroi civili, nell’accezione meno retorica che si possa immaginare del termine. E per questo mi sono sentito felice come un bambino quando mi hanno comunicato che il mio racconto (poche righe senza velleità letterarie di alcun tipo) era stato inserito tra le “opere” finaliste. Giustamente non ho vinto nulla, però essere lì è per me bellissimo.
Quindi di seguito troverete Tutto sulla pelle, opera prima del sottoscritto. Autobiografica quanto basta.
Il grasso.
Il sangue.
Il fango.
Il sudore sulla pelle.
Ecco cosa rimaneva alla fine di quelle giornate di libertà assoluta.
Pedalare e cadere e rialzarsi e sfrecciare e pedalare.
Da solo o in compagnia, poco importava.
La libertà può essere condivisa o meno, ma resta quella sensazione.
Comunque.
La fortuna di essere cresciuto in un posto di provincia che non era il deserto ma poco ci mancava. Di certo non avrebbe potuto pedalare e cadere e rialzarsi e pedalare se fosse cresciuto, che so, nella Roma di via dei Prati Fiscali. Provaci, a dodici anni, ad andare in giro in bicicletta tra autobus, taxi, macchine, moto, camion dell’immondizia. Mezzi guidati da persone annichilite dalla vita cittadina, disposte ad accoltellarti per due metri di vantaggio al semaforo di via di Val Melaina.
No. Lui aveva il mare, davanti.
Il luccichio della superficie dell’acqua, e i colori di fuoco e cobalto che lo accompagnavano sulla strada del ritorno. Perché la libertà si, ok, ma il ritorno era fissato al tramonto. Che d’inverno sapete bene a quale disposizione meccanica delle lancette corrisponda, da quelle parti. O a quale sequenza di 0 e 1 corrispondesse sul suo Seiko, regalo della comunione desiderato e conservato a mo’ di reliquia.
Lo studio, quindi, dopo. Dopo le 17.
Dopo le corse, dopo il lungomare a perdifiato senza mani (andata e ritorno, seivirgolaquattrochilometri dritti dritti dritti), dopo aver accompagnato a casa il compagno d’avventura di turno, dopo le ragazzate e le ragazze, dopo le sfide tipo all’ok Corral coi bulli di cartone della sua scuola che erano di fatti pane casereccio, come solo i ragazzi di paese sanno essere, altro che cartone.
Dopo le cadute, dopo i furterelli di frutta nei campi, dopo l’ultima revisione al mezzo meccanico prima che fosse posto a riposo, il meritato riposo, in cantina, manco fosse la Ferrari di Gilles Villeneuve ai box di Monza.
E così si portava a casa, nella sua stanzamondo, le maglie intrise di sudore e il pensiero di Dario e di Felice, due tra i più fedeli compari di scorribande. E quali nomi potevano essere più azzeccati di Dario e Felice, se ti fanno venire in mente l’aria (vento in faccia alzo le braccia pronto a ricevere il sole) e la contentezza, che ti sembra tale anche dopo che a Felice, dodici anni, avevano ammazzato il padre, come un cane.
E si riportava a casa il pensiero di Pina. Non che ne fosse innamorato. No.
E poi vallo a sapere che cos’è l’amore a dodici anni. No, bastava la vaghissima idea di aver in qualche modo generato, al suo passaggio, un’onda di pressione che si fosse propagata fino a raggiungerla, da qualche parte del collegio di suore dove era rinchiusa con fratelli e sorelle e altri figli di Dio, madre prostituta a padre chissà dove.
Certi ricordi dovrebbero restare intonsi, immacolati, cristallizzati all’epoca in cui li hai vissuti. Con le facce, i corpi, i sorrisi, gli sguardi di quel tempo e solo di quello. Altro che bacheche, di quelle che ti mostrano nella loro crudezza la decadenza dovuta al tempo che passa, mentre continui a sentirti giovane e invece il tempo è proprio un gran bastardo. E allora meglio resettare tutto e lasciare i ricordi là dove li hai scovati, in mezzo a neuroni che si inviano segnali che spesso fai fatica a captare, quando tutte le dimensioni ti apparivano immensamente piccole (le scale, le ruote, le strade) perché di veramente piccolo c’eri tu e solamente tu.
L’amore di Gianclaudio
È difficile trovare le parole quando arrivano improvvise notizie che ti spaccano il cuore in due.
Ciascuno di noi porterà con sé un pezzo di Gianclaudio e se lo terrà ben stretto.
C’è una tristezza immensa in queste ore, però sento anche di essere felice per averti avuto con noi, Gianclaudio, che hai messo in circolo gioia di vivere, passione, rigore morale, allegria, sorrisi.
Ma soprattutto hai messo in circolo tanto amore, quello che ci hai dato in mille manifestazioni diverse e quello che proviamo per te.
Penso a Patrizia e Pasquale, e tu non potevi che essere venuto al mondo da due persone così.
Penso al loro dolore, e vorrei che il nostro amore per te, Gianclaudio, arrivasse anche a loro, nella speranza che riesca, almeno un po’, a riempire questo vuoto enorme.
Tu, nel frattempo, continua a lottare con noi, che di te abbiamo davvero bisogno.
Ciao, compagno.
C’è ancora speranza a Minturno
Mentre tra i candidati a Sindaco di Minturno c’è chi è contrario a qualsiasi forma di accoglienza e solidarietà nei confronti dei migranti, una figlia di Minturno, Sabrina Yousfi, si sta impegnando in prima persona per portare aiuti a bambini, donne, uomini costretti a vivere in condizioni disumane nel campo di Idomeni. Qui trovate una sua intervista.
Dino, pensionato d’oro
Abbiamo conosciuto la Comunità di Sant’Egidio nel 2004. Avevamo desiderio di un capodanno diverso, e ci accolsero a braccia aperte per festeggiare con i senza tetto, gli esclusi, gli ultimi della Stazione Tuscolana. È stata una esperienza bellissima, che abbiamo proseguito per qualche anno, tutte le settimane, e che speriamo di riprendere quanto prima. Tra i vari amici che abbiamo incontrato c’è Dino, e mi piace farvi conoscere la sua storia. E un grazie a mio padre che ha postato l’articolo.
Sensibile alle foglie (e ai mutamenti degli uomini)
Forse ne ho già parlato da qualche parte. Nel 1992 iniziai a scrivermi con un condannato a morte nel carcere di Huntsville, Texas, che si chiamava Paul Rougeau. Con altri ragazzi che corrispondevano con Paul (Ilaria, Rambaldo, Giovanni, Giuseppe, Stefano a Roma, e altri in giro per l’Italia) creammo un comitato che ho scoperto con piacere essere ancora attivo, a distanza di tanti anni. Provammo a salvare Paul, ma non ci riuscimmo. Uno dei mezzi che utilizzammo per attirare l’attenzione sul suo caso fu la pubblicazione di un libro, Mi Uccideranno in Maggio, con le sue, e le nostre lettere. L’editore di quel volumetto era Sensibili alle Foglie, casa editrice di Renato Curcio. L’altro giorno camminavo, insieme alla mia famiglia, per gli stand della fiera della piccola editoria che si tiene da qualche anno a Roma. E ho cercato lo stand di Sensibili alle Foglie, nella speranza di trovarlo lì, Renato Curcio. E in effetti c’era. Ho voluto stringergli la mano. Non a Renato Curcio. Ma all’uomo, che tramite un percorso di espiazione e redenzione torna ad essere parte della società. Quel percorso di espiazione e redenzione che era stato negato al nostro amico Paul, al di là dell’oceano.