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La CGIL e le sfide del futuro

 

In queste settimane, e fino all’assemblea conclusiva che si terrà a Bari dal 22 al 25 gennaio 2019,  si sta celebrando il XVIII congresso della CGIL . Alla fine del percorso congressuale la CGIL designerà il nuovo segretario generale, successore di Susanna Camusso.

Da iscritto alla FILT-CGIL, per la quale sono RSU e RLS presso la mia azienda, ho partecipato al congresso territoriale di Roma Sud e Castelli, e al congresso regionale di Roma e Lazio. Il mio primo congresso da sindacalista, dopo anni di congressi di partito. Una esperienza bellissima, che mi ha consentito di conoscere meglio, dal racconto dei lavoratori delegati, realtà lavorative diverse dalla mia e nelle quali emergono criticità devastanti e buone pratiche da esportare altrove. Un dibattito partecipato da donne, uomini, lavoratori, quadri sindacali, rappresentanti istituzionali che non hanno mancato di dare il loro contributo alla discussione.

Tra i diversi interventi ho apprezzato in particolar modo quello di lavoratrici che ancora oggi patiscono dell’assenza di una reale conciliazione vita-lavoro che costringe le donne a scegliere tra famiglia e lavoro, spesso a scapito del posto di lavoro stesso. Il gap di genere, drammaticamente presente a tutti i livelli, resta uno dei principali fattori di mancata crescita del nostro Paese.

Poi l’intervento un lavoratore immigrato che ha ricordato (ce n’è sempre e comunque bisogno) il valore del contributo alla crescita economica di un Paese dei lavoratori che vengono da altri Paesi.

E da ultimo mi ha fatto piacere ascoltare l’intervento di un compagno della mozione di minoranza che, pur da posizioni distanti rispetto a chi ha sostenuto il documento che ha raccolto la quasi totalità dei consensi degli iscritti, ha ribadito la volontà di restare, convintamente, in  CGIL. Uniti nelle differenze.

La prima riflessione che alcuni compagni hanno fatto durante i loro interventi è che ormai la CGIL rappresenta l’unica entità di sinistra capillarmente presente nel paese. L’unica forza di sinistra organizzata che presidia il territorio, i posti di lavoro, discute, dibatte, propone.

La CGIL, a partire dalla sua fondazione (1944), difende i lavoratori italiani. Lo ha fatto nel dopoguerra, negli anni del boom economico, nel ’68, durante gli anni di piombo, durante gli anni ’80, nel periodo della svalutazione della lira, all’entrata nell’Euro, dopo l’11 settembre, durante la peggiore crisi economica dopo quella del 1928 e fino ad oggi.

Lo fa bene, lo fa male, giudichino i lavoratori stessi. I congressi servono, oltre che a definire i gruppi dirigenti, ad analizzare errori, ad elaborare proposte, a preparare il futuro.

Di questo ha parlato la relazione del segretario della FILT-CGIL Roma e Lazio Eugenio Stanziale, riconfermato durante il congresso che si è svolto gli scorsi 30 e 31 ottobre.

 

Una relazione esaustiva, coraggiosa, a tratti severa e comunque di alto profilo. Una analisi che ha riguardato aspetti del momento storico e politico, nazionale e internazionale, e che, ovviamente, ha preso in considerazione la vita della CGIL, passata, presente e futura.

Ho apprezzato moltissimo la “pars destruens” del ragionamento del Segretario. Raramente, nelle parole del leader di un gruppo dirigente, ho assistito ad una autocritica così puntuale sugli errori fatti dalla nostra Organizzazione. La “pars costruens”, che si può sintetizzare nella necessità di cercare nuovi linguaggi per poter ambire a rappresentare al meglio i lavoratori nel prossimo futuro, riguarda noi tutti e da’ il solco entro il quale la CGIL dovrà muoversi.

Come spesso mi capita ho preferito ascoltare, capire, conoscere piuttosto che intervenire in prima persona al dibattito, ma a posteriori un mio piccolissimo contributo provo comunque a darlo.

Una delle parti della relazione del Segretario che mi ha maggiormente indotto alla riflessione è stata quella sul conflitto e le sue forme. Occorre trovare altre forme che non siano lo sciopero, è vero, ed è questa un sfida da affrontare fin da ora. Ma se è vero che il diritto allo sciopero è garantito dalla nostra Costituzione, è anche vero che l’assenza di una legge sulla rappresentanza, apre la strada a scioperi indetti da micro-sindacati (a volte al di là della ragionevolezza dello sciopero stesso in funzione degli obiettivi che si pone) che spesso finiscono per minare la validità dello strumento in sé, oltre a far incazzare notevolmente gli utenti.

Al di là di questo, però, resta la validità dello strumento e se è vero, come anche il Segretario ha rilevato, che anche l’azione della CGIL contro l’attuale governo sembra poco incisiva, allora credo che potrebbe essere il caso di indire, a brevissimo, uno sciopero generale (magari di mercoledì, così si tolgono da subito argomenti ai soliti detrattori, mi si passi la provocazione).

Non perché, come diceva non mi ricordo chi, scioperare è bello, ma perché motivi per scendere in piazza non ne mancano di certo. A partire dalla natura stessa del governo, omofobo, razzista, xenofobo, fascista, nazista. Basta pensare ai migranti, a Riace, a Lodi.

E se ciò è necessario perché ci sono principi sanciti dalla nostra Costituzione che non possono essere calpestati, diventa ancora più necessario se analizziamo la qualità dei provvedimenti economici che il Governo intende intraprendere.

Sforare il 2,4 % di deficit non è di per sé un tabù, ma ha un senso se l’extra deficit è dedicato ad investimenti in conoscenza, in ricerca scientifica, in borse di studio che rendano accessibile scuola e università anche ai soggetti economicamente più deboli, ad investimenti nella sanità pubblica che rendano possibile curarsi anche per chi non ha risorse economiche, ad azzerare le differenze di genere.

Se è dedicato a mettere in sicurezza le scuole, a combattere il dissesto idrogeologico e mettere in sicurezza il territorio, ad investire sul trasporto locale e sul trasporto su ferro, nell’ambito di un piano di mobilità nazionale che integri treno, aereo, autobus, bicicletta, automobile.

In questi mesi non abbiamo visto nulla di tutto ciò, anzi si inizia una battaglia contro le istituzioni Europee, il cui esito potrebbe essere catastrofico per l’Italia, in nome della flat tax che taglia le tasse ai ricchi per restituire ai ricchi, per premiare gli evasori fiscali, per elargire, con criteri ad oggi ignoti, un reddito di cittadinanza che umilia i poveri, ritenuti incapaci di destinare in maniera virtuosa le somme elargite a seconda delle proprie necessità tanto da dover render conto della moralità delle proprie spese e da essere costretti a spendere in determinati negozi e non in altri.

Assistenzialismo, paternalismo, moralismo, incentivi alla delinquenza e all’evasione fiscale, aumento delle diseguaglianze.

Questo ci riserva il governo del cambiamento.

Nulla per il lavoro, la più grande emergenza del Paese insieme alla criminalità organizzata, altro che immigrazione.

E del resto il buon giorno si era già visto con il cosiddetto decreto dignità, che aveva sostanzialmente avallato la logica perversa del jobs-act, limitandosi a limare qualche aspetto marginale, lunghezza dei contratti, indennizzi per il licenziamento, clausole contrattuali e niente conteneva per ripristinare il sacrosanto diritto di mantenere il proprio posto di lavoro quando si è licenziati senza giusta causa. Perché i lavoratori li vogliono anche loro così, muti e sottomessi, senza diritti, pena il licenziamento e la dignità monetizzata con poche migliaia di euro.

Sono mesi difficili, e tutto potrebbe ancora di più precipitare all’esito delle prossime elezioni europee, vero obiettivo dell’attuale governo che pur di racimolare voti e mettere in discussione l’intero impianto di civile convivenza faticosamente raggiunto nel nostro continente, seppur con  i suoi evidenti limiti mostrati in questi anni, liscia il pelo agli istinti più biechi degli italiani ed elargisce mance elettorali che rischiano di minare definitivamente i conti pubblici del nostro paese. Il tutto mentre nel mondo appare evidente la volontà dei satrapi vecchi i nuovi (Putin, Trump,  e recentissimamente Bolsonaro), ai quali il governo italiano non manca di far arrivare l propria stima ed amicizia, di distruggere l’Europa per rafforzare le mire egemoniche delle vecchie e nuove potenze economiche.

La CGIL ha l’obbligo di mostrare una strada alternativa ai lavoratori che miri a togliere armi al populismo, al sovranismo, tentazione che pure trova proseliti in settori della sinistra italiana, al nazionalismo e di proporre al Paese, nelle piazze, nei luoghi di lavoro di batterci insieme affinché le istituzioni europee siano rese trasparenti, democratiche e responsabili verso i cittadini dell’unione. Non mancano proposte in questo senso, su tutte quelle che sta portando avanti con il suo movimento transnazionale Yanis Varoufakis.

Sempre parlando di conflitto, gli scioperi, le manifestazioni, servono non solo a rendere evidente, appunto, il conflitto stesso ma anche a ricucire, consolidare, costruire rapporti con pezzi di società con le quali si riesce difficilmente a dialogare.

In un intervento ascoltato durante il dibattito una compagna poneva l’attenzione al mondo della scuola e alla necessità di parlare con gli studenti. In questi giorni alcune scuole romane sono in fermento, altre ne seguiranno e credo che sia indispensabile un dialogo con gli studenti, i lavoratori di domani ai quali anche la FILT CGIL di Roma e Lazio si è rivolta per capire cosa sia, per le nuove generazioni, il lavoro. Vi riporto di seguito la “piattaforma” del Liceo Virgilio, che presenta una pressoché totale identità di analisi rispetto alle rivendicazioni della CGIL.

“Virgilio occupato.

Ieri noi studenti del Liceo Virgilio abbiamo deciso di occupare il nostro istituto aderendo alla piattaforma politica cittadina che ha visto nell’occupazione del Liceo Mamiani di martedì il suo primo atto. Se da una parte qualcuno dirà che è la solita pantomima che propiniamo ogni anno, il cui scopo è quello di perdere giorni di scuola, al contrario, rispondiamo che non si tratta di questo, ma di una lotta politica, compito che da sempre avrebbe dovuto avere questa forma di protesta.  Analizzate e comprese le circostanze attuali in cui si trova il nostro paese, insieme agli studenti di altre scuole romane, è nata la volontà di contestare e protestare contro le politiche dell’attuale governo. Abbiamo deciso di opporci con forza a chi ha costruito la propria carriera  politica su xenofobia, razzismo, sessismo, omofobia, di contestare un esecutivo che non rispetta né noi né i diritti umani né la Costituzione sulla quale il nostro paese è fondato. Allo stesso tempo, ci discostiamo in ogni modo dalla sinistra dei passati governi, quella stessa sinistra che ha favorito la precarizzazione del lavoro, che ha svilito la scuola pubblica con tagli alla didattica e all’edilizia e che ha promulgato la riforma della Buona Scuola. Una “sinistra” rappresentata da criminali come l’ex Ministro degli Interni Minniti, che ha causato la morte di migliaia di esseri umani in mare.  Ad oggi, però, questa protesta è diretta contro il governo Salvini-Di Maio, inaccettabile sotto ogni punto di vista. Il gravoso incremento di aggressioni ai danni degli stranieri in Italia non può essere tollerato.  Gli sgomberi delle occupazioni abitative, partiti con un’operazione a Tor Cervara il 7 settembre, hanno lasciato sulla strada centinaia di persone in condizioni tragiche, come nell’episodio di Villa Gordiani del 27 settembre. La proposta di abolizione della legge Mancino avanzata dal Ministro per le politiche per la famiglia, Fontana, è uno dei segni più evidenti della tendenza fascista del governo, confermata anche dalle dichiarazioni del Ministro degli Interni. Più di una volta la Lega è scesa in piazza al fianco di CasaPound che, come è noto, occupa diversi stabili da decenni, e che, al contrario delle occupazioni gestite da forze antifasciste e dai movimenti per la casa, non ha certo da temere sgomberi da questo governo, come ha dimostrato quanto accaduto in Via Napoleone III la settimana scorsa. E’ preoccupante la proposta di equipaggiare la polizia di taser e ancor di più la volontà di abolire il reato di tortura, volontà partita da chi sembra aver voluto dimenticare le vittime degli abusi in divisa e dei morti di Stato. Altrettanto drammatico è lo stanziamento di 2.5 milioni di euro per il decreto “Scuole Sicure”, fondi che avrebbero potuto essere destinati all’edilizia scolastica e che non elimineranno il dilagante problema di spaccio all’interno delle scuole.  Il problema della droga si risolve con studenti consapevoli ed informati, colmando il vuoto sociale, non con la repressione.  Il Virgilio protesta contro il nazionalismo di questo governo e contro il suo emblematico slogan: “Prima gli Italiani” che si accompagna ad una propaganda che strumentalizza tragedie e che crea una lotta fra gli ultimi. Non pretendiamo di rovesciare l’ordine costituito solo con la nostra mobilitazione, ma sentiamo la responsabilità di rendere evidente, in maniera incisiva, il nostro dissenso riguardo tutto questo. In questi giorni fra le scuole si sta elaborando un manifesto comune che porti avanti le nostre idee e possa riunire gli studenti in un fronte oppositivo unito. Non ci stiamo schierando contro il corpo docenti né la presidenza, il nostro dissenso è rivolto a chi governa.  Oggi il Virgilio occupa perché questo non è il nostro governo, non è il nostro cambiamento e non è l’Italia in cui vogliamo crescere!”

Se conflitto dovrà essere, la CGIL non può che stare a fianco degli studenti in lotta.

Tra gli interventi che si sono succeduti durante il dibattito congressuale devo dire che pochissimi sono stati quelli che hanno fatto cenno al dramma della sicurezza sul lavoro, vera emergenza nazionale. Un dramma noto, che i lavoratori conoscono a tal punto da ritenere, come dire, scontato che se ne debba avere a che fare quotidianamente. E forse anche da ciò deriva una sorta di ritrosia nel parlarne. Non so.

Davanti alla strage continua alla quale assistiamo inermi ogni giorno e che coinvolge ogni settore di attività, dall’edilizia agli uffici, dalle fabbriche alle strade, dalle forze dell’ordine agli studenti, davanti all’ipocrisia del termine “morti bianche” utilizzato per catalogare morti che invece sono nere come di più non potrebbero essere, quale cosa più efficace di una enorme, massiccia, mobilitazione nazionale di tutti, tutti, e ribadisco tutti i lavoratori? Sarà che per lavoro mi occupo proprio di sicurezza, soprattutto nei cantieri, ma credo cha anche questo potrebbe essere un buon motivo di conflitto per poter chiedere più risorse agli ispettorati del lavoro, alle ASL, maggiori controlli sulla formazione di datori di lavoro, dirigenti, preposti, lavoratori, piena attuazione di alcune previsioni del D.Lgs. 81/08, tipo la patente a punti delle imprese.

Infine, mi preme dare un modestissimo contributo anche su un altro argomento al quale ha fatto rifermento il Segretario nella sua relazione, ossia i contratti e, in particolar modo, i premi di risultato e welfare aziendale introdotti dall’accordo del 14 luglio 2016. Mi si permetta di farlo utilizzando le parole di Marta Fana, molto migliori delle mie, e del suo libro “Non è lavoro, è sfruttamento”.

“… La destrutturazione del CCNL e la sua progressiva derogabilità poggiano anche su altri strumenti, non necessariamente esterni: ad esempio l’utilizzo sempre più estensivo del welfare aziendale, oppure le defiscalizzazione dei premi aziendali…

Ancora una volta si afferma l’idea che il peso dell’adattamento, e perché no, dei sacrifici, debba ricadere unicamente sui lavoratori. Il lavoro da costo fisso si fa sempre più variabile, dal momento che pezzi sempre più consistenti sono determinati dagli indici di produttività ed elargiti sotto forma di premi o di welfare aziendali. Poiché molte delle voci variabili possono essere escluse dal calcolo della pensione, l’abbattimento dei diritti opera non soltanto nel presente, ma anche nel futuro. Soprattutto non si capisce perché i lavoratori dovrebbero cedere parte del proprio diritto alla retribuzione e ai suoi aumenti, che rientrano nella sfera del rapporto di lavoro, in cambio del diritto al welfare, che invece è parte integrante dei diritti di un cittadino in quanto tale…

Non bisognerebbe stancarsi di affermare che la retribuzione e il diritto a un salario dignitoso non sono un regalo, una concessione da elargire ai lavoratori se si comportano come chiede il padrone, ma il sacrosanto diritto materiale al processo di vendita della forza produttiva da parte dei lavoratori stessi, Infine, la logica dei premi aziendali individualizza i rapporti di lavoro creando competizione tra i lavoratori, mettendoli gli uni contro gli altri; vince che lavora di più, non chi mette in discussione le scelte dell’azienda, chi si piega senza tentennamenti ai nuovi orari. In realtà però chi vince è solo ed esclusivamente l’azienda, i suoi profitti…

Per qualsiasi ragione, chi ha il potere di elargire o meno i premi può sempre ritrattare in modo soggettivo o oggettivo, un calo nelle vendite, un incidente, un investimento sbagliato che non produce gli effetti sperati possono compromettere il raggiungimento degli obiettivi per cui scattano i premi. Così la promessa viene meno, ma soprattutto tutto il peso del rischio imprenditoriale ricade e viene assorbito dai lavoratori. Gli stessi che hanno accettato di lavorare di più, più intensamente, nella speranza di ricevere qualcosa. Sarebbe il caso di ricominciare a pensare che quel che viene promesso qui, cioè il salario, è un diritto e non un favore…

Sul piano generale, il ricorso al welfare aziendale come forma di remunerazione ha a che fare con il ruolo dello Stato e della sua funzione democratica nel definire e soddisfare quei diritti che dovremmo considerare non già di cittadinanza, ma proprio universali, quali la casa, la sanità, la pensione, la cura delle persone e l’istruzione, che prescindono dallo status di lavoratore. Da un lato, infatti, in un sistema basato sulla fiscalità generale, cioè sulle tasse versate dai cittadini, principalmente lavoratori, una riduzione del gettito fornisce un assist ai tagli di bilancio per sanità, istruzione, trasporti, assistenza di vario genere. Dall’altro, delegando la definizione del welfare alle imprese, si compie una vera e propria privatizzazione dello stato sociale, lasciando, quindi, un diritto di cittadini in balìa dell’arbitrarietà e degli obiettivi delle imprese.  Se il rischio di un welfare sempre più ristretto e insufficiente ricade sull’intera collettività, esclusi dalla protezione sociale saranno proprio coloro che dovrebbero maggiormente beneficiarne, ovvero i soggetti più vulnerabili: precari, occupati e non, giovani in età scolare…in sintesi si avalla la crescita di povertà e disuguaglianze, rinnegando il principio di sussidiarietà. Un effetto regressivo che si riversa sull’intera società, generalizzando l’iniquità intrinseca della detassazione dei premi di produttività. Questa tendenza al welfare privatizzato non può lasciare i sindacati indifferenti o peggio essere avallata, proprio nel momento in cui sul fronte della contrattazione nel settore pubblico, a livello nazionale e territoriale, ci si batte per il rispetto di diritti minimi in un contesto già ampiamente esternalizzato, su cui è sempre più difficile rivendicare condizioni di lavoro degne, soprattutto per i lavoratori in appalto.

Basta? Alle imprese che acclamano il mercato con la miseria degli altri non basta mai.”

In definitiva, forse occorre aprire un dibattito su questi aspetti a due anni e passa dall’accordo interconfederale. Confrontandomi con un compagno della CGIL di lungo corso, quando ho detto vogliamo il pane e le rose, mi ha invitato a considerare i tempi, e a portare a casa prima il pane. Si, ma io le rose le voglio lo stesso.

Mi fermo, e nel ringraziare i pochi affezionatissimi che arriveranno alla fine di questo articolo, auguro ai compagni della CGIL il meglio.

W la CGIL!

p.s. (al di là di tifoserie e promettendo una analisi un po’ più approfondita, dico che Maurizio Landini sarebbe un ottimo segretario generale della CGIL)

Come ti ammazzo il sindacato

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La CGIL è il mio sindacato, sono iscritto da anni alla FILT ma riconosco tutti i limiti dell’azione della CGIL.

Ne parla anche oggi Antonio Padellaro su Il Fatto Quotidiano, che lancia un’appello a Susanna Camusso e a Maurizio Landini:

“…colpisce il declino di un’organizzazione che da troppo tempo non è più capace di farsi carico, come si diceva una volta, degli interessi generali del Paese. Concentrata sulla difesa dei propri iscritti: pochi lavoratori produttivi e soprattutto pensionati e pubblico impiego. Rinchiusa nelle proprie roccaforti e indifferente al degrado della cosa pubblica. E adesso indicata come il male da cui liberarsi. Fate qualcosa.”

Ripongo le mie speranze in Landini. In Susanna Camusso molto ma molto meno.

E la presa di posizione di Susanna Camusso sui referendum proposti da Possibile non fa che rafforzare le mie critiche nei confronti dell’attuale dirigenza della CGIL.

Certo, lo strumento, negli ultimi anni, ha mostrato i suoi limiti. O quantomeno i cittadini hanno spesso dimostrato di non essere troppo disposti ad un coinvolgimento diretto nelle scelte che li riguardano. Misteri italici, visto che, di contro, sovente ci si lamenta di non poter scegliere direttamente. Ma se le firme si raccolgono raccogliendole, resta appunto l’incognita della partecipazione all’eventuale voto. E va da sé che il mancato raggiungimento del quorum sarebbe un bel problema, per tutta la sinistra.

Nutro qualche perplessità sul quesito che riguarda la scuola, non perché non ne condivida lo spirito e il fine, ma perché temo che possa essere utilizzato come referendum pro o contro gli insegnanti, di ogni ordine e grado. Scaricando su di loro le frustrazioni, motivate o meno, di genitori, cittadini, che vedono indistintamente nella classe docente dei nemici, dei fannulloni, dei privilegiati, senza entrare nel merito del quesito. Purtroppo Renzi è stato bravo, in questi mesi, a mettere pezzi di società contro.

Però evocare scenari di riforme dello statuto dei lavoratori o della scuola sui quali impegnarsi prioritariamente (quando? con quali tempi? con quali interlocutori?) come motivazione per non sostenere i referendum mi fa venire solo rabbia. Perché al di là del caso specifico in quelle parole intravedo la farraginosità dell’azione sindacale, i tempi lunghissimi, la sempiterna proposizione di riti che sanno di politica stantia, l’atavica difficoltà nel superare l’attrito di primo distacco, il non voler scardinare equilibri e collateralismi rispetto al governo amico che ancora resistono, come se pezzi di CGIL avessero ancora qualcosa da chiedere ai loro referenti politici che sono rimasti nel PD. A far cosa, nessuno lo sa.

Nelle parole della Camusso vedo il sindacato che resta sempre uguale a sé stesso, che non sa rappresentare le nuove generazioni, che non si intesta battaglie giuste solo perché non ne può rivendicare la primogenitura.  Il sindacato, e la CGIL, se vuole avere un futuro, deve mettere in atto un profondo cambiamento nei metodi e nelle persone.

Altrimenti si rischia di ammazzarlo, il sindacato.

Il Jobs Act, per quello che è

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Dall’intervista di Luciano Gallino a Micromega.

Scusi professore, lei parla di un progetto vecchio eppure il governo – che del nuovismo ha fatto un cavallo di battaglia – lo sponsorizza proprio per modernizzare il Paese. Dov’è l’imbroglio? 

Nel Jobs Act non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. E’ una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse della metà anni ’90. Inoltre si tratta di una legge delega, un grosso contenitore semivuoto che sarà riempito nei prossimi mesi o chissà quando. Non mi sembra un provvedimento che arginerà la piaga della precarietà né che rilancerà l’occupazione nel Paese. 

Una bocciatura netta. E del premier che giudizio esprime, molti iniziano a considerare il renzismo come il compimento del berlusconismo. E’ d’accordo? 

Per certi aspetti sì, il Jobs Act potrebbe tranquillamente esser stato scritto da un ministro di un passato governo Berlusconi. Non a caso Maurizio Sacconi è uno dei politici più entusiasti. Renzi continua nel solco di politiche di destra impostate sul taglio ai diritti sul lavoro, sulla compressione salariale e sulla possibilità di un maggiore controllo delle imprese sui dipendenti, vedi l’uso delle telecamere. 

In un recente editoriale su Repubblica ha contrapposto alla Leopolda renziana, la piazza della Cgil. Eppure in altre occasioni passate aveva espresso dubbi sull’organizzazione di Susanna Camusso, accusandola di aver “appannato la bandiera del sindacato”. Ha cambiato idea? 

Negli ultimi mesi ad esser cambiata è la Cgil. In diversi frangenti non ha contrastato i nefasti provvedimenti avanzati dai governi, come nel caso della riforma pensionistica. Ha accettato supinamente leggi micidiali e lo smantellamento del nostro welfare. SulJobs Act è stata incisiva mettendo in piedi una dura resistenza. E le divergenze tra Cgil e Fiom – che invece ha sempre mantenuto la barra dritta – ora sono minori, questo va salutato positivamente. 

Any given friday (ovvero dello sciopero generale)

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Seguo abbastanza allibito le polemiche sullo sciopero generale proclamato per venerdì 5 dicembre.

Maledetto venerdì.

Due parole, sul piano strettamente politico, le ha dette l’amico Gianpaolo:

“Io capisco i renziani-renziani. I fighetti alla Serra che lo sciopero lo vorrebbero abolire o limitare, quelli che in realtà hanno fatto molti “ponti” nella loro vita ma non sanno cosa sia perdere una giornata di salario, con la crisi che morde. E’ la loro natura, non possono cambiarla.
Ma quelli acquisiti, quelli che fino a ieri in piazza ci scendevano, quelli che si definivano “di sinistra”, beh, quelli mi fanno un po’ schifo e anche un po’ paura.”

Aggiungo: quale sarebbe il vantaggio per la CGIL, e per il lavoratori, scioperare di venerdì? Il ponte? Cioè, per fare un giorno di vacanza in più un lavoratore, di questi tempi, rinuncerebbe senza colpo ferire ad una giornata di lavoro, che in busta paga fanno sempre 60-100 €? Come dire, bruciarsi un mese di 80€ renziani per far sega al lavoro? Ma non sarebbe più furbo prendere un giorno di ferie, come in effetti molti, di quelli meno sindacalizzati, fanno? E la CGIL, cosa ne guadagnerebbe, forse milioni di aderenti allo sciopero? E come si fa, se le aziende sanno benissimo quali siano i giustificativi che i lavoratori utilizzano per il giorno di assenza?

E poi consentitemi: si dice che il sindacato non deve fare politica, che non può permettersi di contrattare con il governo le leggi, se vuole può farsi eleggere in parlamento. Si chiama disintermediazione, che è l’opposto della concertazione. Si dice anche che lo sciopero è uno strumento obsoleto. Ma allora i lavoratori quali strumenti hanno per far sentire la propria voce?

Una gara di peti a Piazza San Giovanni? Le mazzate? Andare in giro con il culo di fuori? Attaccarsi un cartello in fronte con su scritto fate di me quello che volete?

Oppure, davvero, si sta facendo strada l’idea che i diritti sono le elemosine che il tuo datore di lavoro, forte delle pseudo-riforme in vista all’orizzonte ti concede, perché l’imperativo è produrre con un costo del lavoro sempre più basso, e vinca il più forte?

Ma l’idea che un lavoratore scioperi per difendere i diritti di tutti noi, proprio no, veh? Molto meglio mettere i lavoratori gli uni contro gli altri.

Divide et impera.

Non ne sarei così orgoglioso

Meni

Vabbè, Menichini appartiene a quella amplissima schiera di esegeti del pensiero Renziano, di ammiratori-a-prescindere che tutto perdonano e che hanno il corpo foderato di acciaio, e altroché aratro sulla panza.

Ad oggi non sappiamo quale sarà l’approdo finale dell’iter delle riforme costituzionali, e dalle cronache recentissime la confusione regna sovrana, a quanto pare.

Menichini parla di convenienza di Berlusconi, nel fare le riforme.

Ed io mi chiedo se possa essere questo un caposaldo delle riforme del Paese.

E parla di consenso popolare.

Quello delle primarie? Quello dei sondaggi? Quello a prescindere?

E vogliamo parlare di restaurazione? Giovanardi che deve riformare sé stesso, Sacconi preferito alla CGIL. E, appunto, Berlusconi padre della patria.

Ma fammi il piacere.

 

 

Nascere o morire

Da quel che si può leggere sui giornali, la proposta di riforma del mercato del lavoro, formulata dal governo e accettata da tutte le parti sociali tranne la CGIL, presenta aspetti positivi (pochi) e aspetti negativi (molti). La semplificazione nella jungla dei contratti atipici e la trasformazione dei contratti di apprendistato in contratti a tempo indeterminato dopo 36 mesi è un passo in avanti anche se, quasi sicuramente, la maggiore tassazione dell’1,4 % finirà per essere scaricata sulle retribuzioni. Resta da sciogliere il nodo delle finte Partite IVA, e non mi sembra che possa essere sufficiente l’impegno del governo e delle parti sociali ad un impegno per un “contrasto secco” al fenomeno. Buona anche la sperimentazione sulla paternità obbligatoria. Ciò che, ovviamente, è inaccettabile, è la riforma dell’articolo 18 (a parte l’estensione del diritto al reintegro in caso di licenziamento per motivi discriminatori alle aziende con meno di 15 dipendenti). Non c’è alcuna evidenza, da un punto di vista economico-scientifico, del nesso tra l’articolo 18 nella sua attuale formulazione e la ritrosia delle aziende ad assumere. Sono chiacchiere. L’articolo 18 rappresenta un elemento di civiltà per il semplice fatto di stabilire che un diritto, come quello al lavoro, non è monetizzabile. Punto. Non ci sono 15 o 27 mensilità di indennizzo che tengano. Nel dibattito in corso negli ultimi mesi il concetto onnipresente era quello di spostare la tutela dal posto di lavoro al lavoratore. Mi sembra che in questo modo si sacrifichino sia l’uno che l’altro.

Ma al di là del merito del provvedimento, passibile di modifiche più o meno sostanziali nell’iter di approvazione in Parlamento, ciò che colpisce è il metodo. La concertazione è oggi vista come un disvalore, il male assoluto. Il centrosinistra e il PD hanno osannato per anni il modello Ciampi, portato ad esempio di come coniugare riformismo, rigore economico e pace sociale. Monti e il governo si sento tronfi per aver imposto un modello di riforma senza il consenso della CGIL. Uguale a Sacconi. E infatti il PDL esulta.

Il Partito Democratico deve decidere (e sarà costretto a farlo nel corso del dibattito parlamentare che seguirà alla presentazione della riforma), se la coesione sociale debba essere ancora un principio ispiratore della propria azione politica o se, invece, quel tempo è definitivamente tramontato. E con esso l’idea di PD che molti di noi hanno coltivato. Sempre che sopravviva, il PD, a tutto ciò.

Trovare una sintesi

Ieri ho postato su FB un piccolissimo appello a Pietro Ichino e a Susanna Camusso ad incontrarsi e trovare una soluzione ai problemi del mercato del lavoro. Ne è scaturito un discreto quanto animato dibattito. Premesso che sono stra-contento della presa di posizione di Bersani sull’art. 18. Premesso che non sono un fan del professor Ichino anche se non demonizzo le sue proposte. Premesso che sono iscritto alla CGIL  quindi riconosco pregi e difetti del mio sindacato. Penso che il dibattito sull’articolo 18 sia strumentale, non credo che i problemi del mercato del lavoro italiano siano imputabili all’articolo 18 e che quindi licenziare con più o meno facilità possa risolvere la questione lavoro nel nostro Paese, soprattutto per le nuove generazioni. Ci sono varie proposte in campo, se ne discuta serenamente. Ma il sindacato deve fare uno sforzo decisivo per riuscire a dare una rappresentanza, e non esclusivamente una tessera, a tutti quei lavoratori che, oggi, tutele non ne hanno e quindi diffidano di un sindacato che sembra rivolto soprattutto a tutelare (e meno male!) chi è già inserito nel mondo del lavoro con contratti a tempo indeterminato. Per quanto detto Pietro Ichino e Susanna Camusso rappresentano, idelamente, le due posizioni estreme che dovranno necessariamente trovare una sintesi se davvero PD e CGIL hanno a cuore le sorti del Paese e delle giovani generazioni.

Primo Maggio, CGIL e feste comandate

Come avviene da qualche anno a questa parte, all’avvicinarsi della ricorrenza del Primo Maggio inizia a montare la polemica in merito all’apertura dei negozi nel giorno della Festa dei Lavoratori. Quella immensa piazza virtuale (ma nemmeno tanto virtuale) che è FB mi ha dato, nei giorni passati, la possibilità di confrontarmi sul tema con qualche amico, tra tutti Gianclaudio e Giuseppe. 

Una premessa obbligatoria: sono contrario all’apertura dei negozi il Primo Maggio (e non solo, come spiegherò tra un pò). Dovevo comunque a Gianclaudio una risposta, visto che la discussione, ovviamente, si era allargata, e non poco. Soprattutto si era arrivati a porsi la domanda se il sindacato (e, nello specifico, la CGIL) avesse titolo a parlare di difesa dei lavoratori, visto la netta opposizione espressa in merito all’apertura dei negozi nel giorno della Festa dei Lavoratori, o se, piuttosto, la posizione assunta da Susanna Camusso fosse un NO ideologico profferito da chi, nei fatti, finisce per occuparsi in maniera marginale proprio di quei lavoratori maggiormente interessati dall’apertura degli esercizi commerciali il Primo Maggio.  Commessi spesso giovani, precari, in nero, senza tutele. Magari da contrapporre a chi un contratto ce l’ha ed è sempre in cima ai pensieri del sindacato: metalmeccanici, statali, ferrovieri. O da contrapporre ai pensionati. Lo SPI-CGIL, quelli si che sono una forza.

Dico la mia, dunque. Che il sindacato, e quindi anche la CGIL, non abbia più l’autorevolezza e la forza di qualche lustro fa è un dato di fatto.  Certo, ha pesato la lentezza con la quale si è capito (e il percorso non si è ancora compiuto) che il mondo del lavoro stava evolvendo in maniera inesorabile in direzione di un massiccio ricorso a lavori atipici, il che necessitava di ripensare in maniera nuova (e se vogliamo, flessibile anch’essa) ai rapporti con le associazioni datoriali e con i lavoratori stessi. Si è capito tardi quanto fosse decisivo, per un sindacato che vuole essere al passo con le necessità del mondo del lavoro, dare rappresentanza a chi rappresentanza non ne aveva. Una massa informe di giovani, spesso scarsamente politicizzati, che quindi rappresentavano un bacino poco appetibile in un’ottica di collateralismo con le forze politiche di riferimento. Meglio continuare a coccolare chi, pur nella durezza del proprio lavoro, le tutele previste da un contratto nazionale le aveva già. Una strategia che ha comunque mostrato i suoi limiti, visto i risultati delle recenti elezioni politiche nei distretti industriali. Operai che votano a destra, che votano Lega, magari con la tessera della CGIL in tasca. E comunque è bene che il sindacato faccia il sindacato, e non politica. La mancata unità sindacale, tanto auspicata ma nei fatti impraticabile, con CISL-UIL-UGL ridotte a zerbino del governo di centrodestra e CGIL sulle barricate, ha probabilmente reso ancora più inviso il sindacato agli occhi dei lavoratori. Poi c’è il cattivo sindacato, quello rappresentato da delegati che predicano bene e razzolano male, privilegiati che fanno il bello e il cattivo tempo nelle pubbliche amministrazioni: raccomandazioni, difesa di lavoratori indifendibili, mantenimento dei privilegi a danno di chi è senza tutele. Tutto vero. Nella mia piccolissima esperienza personale ho visto tutto ciò e non ne sono stato contento. Affatto. Però.

Però non è vero che la CGIL abbia abbandonato i lavoratori precari e atipici. C’è il NIDIL-CGIL che, da quanto ho potuto toccare con mano, ha fatto e continua a fare molto per chi, fino a poco tempo prima, era privo di rappresentanza  e di diritti. Anche scontrandosi con le altre categorie presenti nella stessa CGIL. A Roma, la mia città, non si contano le realtà nelle quali il NIDIL è a fianco dei lavoratori precari non a chiacchiere, ma sostenendo azioni legali, vertenze collettive, scioperi, occupazioni, e spesso ottenendo buoni risultati. Certo, non è facile, per un sindacato, entrare in un luogo di lavoro, a maggior ragione se già presidiato da altri sindacati. E allora sono i lavoratori a doversi rendere conto che senza sindacato non c’è tutela, ma solo una contrattazione ad personam che rende tutti più deboli, esattamente ciò che le aziende vogliono. Si teme di imbattersi in cattivi sindacalisti? Allora bisogna iniziare a partecipare direttamente, a metterci la faccia, a votare nelle elezioni delle RSU e dei rappresentanti dei precari. E scegliere delle facce nuove che aiutino il sindacato ad essere migliore rispetto a quello che oggi è. Esattamente come deve avvenire per la politica. Non è il momento di tirarsi indietro.

Il resto, sono chiacchiere. Renzi contro la Camusso, la Camusso contro Renzi. La CGIL che non fa il sindacato. Chiacchiere. Ci si impegni per cambiarlo, il sindacato, se com’è adesso non ci piace. Ma nella consapevolezza che senza sindacato i lavoratori sono più soli e quindi più deboli, più ricattabili.

Detto questo, quindi, il riposo nel giorno del Primo Maggio è, per me, sacrosanto. Ma dovrebbe esserlo anche e soprattutto per  motivi non strettamente “sindacali”. La situazione economica del Paese rende appetibile, per i negozianti, qualunque occasione per aumentare i propri introiti. Ma è possibile misurare lo stato di salute di una nazione con il solo metro del consumo? I ritmi di vita della società moderna, soprattutto nelle città medio-grandi, impongono la necessità di prevedere giorni e orari di apertura dei negozi che vadano incontro alle esigenze di chi, durante la settimana, non può dedicarsi agli acquisti. Però mi chiedo: è proprio necessario consumare dei beni anche la domenica e i giorni di festa? Già nel 1968 Roberto Kennedy si chiedeva se il PIL potesse riassumere la felicità di un popolo.  Da ateo chiedo ai cattolici: ma la domenica non è il giorno del Signore? Non possiamo utilizzare la domenica, Natale, Capodanno, Pasqua, Pasquetta, Primo Maggio per consumare qualcos’altro? Cultura, ad esempio. Entrando in un museo, oppure in un teatro, oppure in un cinema? Consumare gli occhi, andando in giro per le nostre città e godere della vista di luoghi che normalmente non vediamo. Consumare le parole, riscoprendo relazioni interpersonali. Qualcuno mi dirà che per far ciò ci sarà bisogno di qualcuno che lavori anche nei giorni di festa. Giusto, ma un conto è lavorare per assicurare dei servizi essenziali (nei giorni di festa gli ospedali sono aperti, i mezzi pubblici funzionano, i treni circolano), altra cosa è lavorare per vendere un bene che può essere tranquillamente acquistato il giorno successivo (o forse se ne potrebbe addirittura fare a meno!).

Allora penso che un’amministrazione comunale “illuminata” dovrebbe tener chiusi i negozi il Primo Maggio e favorire, invece, la riscoperta di quella parte di città che sta al di fuori dei circuiti dello shopping. Altrimenti rischiamo di diventare, tutti, dei numeri privi di anima. Numeri con un € davanti. E per quello il PIL già ci basta.