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Memoriale della Resistenza Italiana

Ho appena finto di leggere questo libro.

Che poi sarebbe la versione stampata delle testimonianze ascoltate dalla viva voce dei protagonisti su Rai 3, in una trasmissione andata in onda fino a qualche settimana fa.

Un grazie infinito a Gad Lerner e ai suoi collaboratori per il lavoro che stanno facendo. Le testimonianze di chi ha partecipato alla Resistenza costituiscono un patrimonio per l’intero Paese e non si dovrà mai smettere di raccontare le storie di uomini e donne che hanno fatto la storia dell’Italia, e se siamo oggi qui a vivere in piena libertà lo dobbiamo principalmente ai protagonisti di quella stagione.

Come già mi era successo guardando queste donne e questi uomini in televisione, leggendo le loro parole non puoi che commuoverti. Per i loro gesti eroici, per la fermezza dei loro convincimenti, per i sacrifici fatti per noi, generazioni successive. E penso che vorrei avere un po’ del loro coraggio, che se ciascuno di noi, oggi, avesse un briciolo del coraggio che hanno avuto non solo a combattere nella Resistenza tra il 1943 e il 1945, ma anche ad opporsi alle leggi razziali, al fascismo, alle ingiustizie nelle fabbriche e nei campi, ai soprusi subiti durante il ventennio, alle deportazioni, e se quel coraggio a nostra volta riuscissimo a trasmetterlo ai nostri figli e ai nostri nipoti, beh, vivremmo in un mondo un po’ più giusto.

Nelle pagine del libro poi ci sono altri spunti di riflessione.

Il ruolo delle donne, staffette, combattenti, senza le quali semplicemente la Resistenza non sarebbe esistita. Un ruolo riconosciuto in quel periodo ma negato successivamente, anche da chi aveva combattuto con loro nelle varie formazioni partigiane. E della questione della parità di genere se ne continua ahinoi a parlare ancora a 75 anni di distanza.

La qualità della classe dirigente venuta fuori dalla Resistenza, si pensi non solo ai nomi più noti, che so, Luciano Lama, Tina Anselmi, Sandro Pertini solo per citare i primi che mi vengono in mente, ma anche a tutti i protagonisti della lotta partigiana che nel tempo hanno avuto la possibilità di sedersi in Parlamento. E ogni confronto con la classe dirigente attuale è semplicemente improponibile.

E poi la memoria per i morti, dai singoli eroici combattenti ai tanti innocenti delle stragi nazifasciste, orrore nell’orrore della guerra, orrore che tanti, troppi, vorrebbero edulcrorare nell’oblio del volemòse bene, del riconoscimento delle ragioni dei vinti, della riappacificazione collettiva, del minestrone storico che accomuna torti e ragioni.

Mai.

Mai.

 

Concetta Iolanda Candido

Prima di tutto mi sento di ringraziare mille e mille volte Gad Lerner. Con il suo  libro ha tenuto in vita la storia di Concetta Iolanda Candido, storia che, altrimenti, sarebbe durata il tempo di un flash al TG di mezza sera, di un trafiletto in cronaca. Concetta Iolanda Candido, appunto. Operaia.  Un giorno, esasperata, entra in una sede INPS di Torino e si da’ fuoco. Non voleva morire, Concetta. No (anche se ancora oggi percorre una strada difficile di riabilitazione fisica e morale, dopo aver rischiato la vita per mesi). Voleva essere, il suo, un gesto estremo di protesta di tutti quelli che avevano deluso le sue aspettative, dai datori di lavoro, alle istituzioni. Si sentiva presa in giro, Concetta, lei che con infinita dignità e riservatezza aveva deciso di tenere nascosta anche alla famiglia la sua difficile situazione economica a seguito del licenziamento avvenuto qualche mese prima. Così, quando per un intoppo burocratico si è vista accreditare sul suo conto una cifra irrisoria rispetto a quanto le spettava e si aspettava, come arretrati sulla NASPI, per tirare a campare qualche mese e saldare qualche debito, quella mattina del 27 giugno, tra le persone attonite dell’ufficio nel quale tante volte era entrata per chiarire la propria situazione, ha tirato fuori le bottiglie di alcool che aveva in borsa e si è accesa.

Nel libro ci sono anche le storie dei salvatori di Concetta, Anas e Roberto, gli unici che hanno avuto la prontezza di prendere in mano un estintore e spegnerla, salvandole la vita.  Anas e Roberto che hanno vissuto la stessa disperazione e solitudine di Concetta, senza arrivare al suo gesto estremo Ci sono le storie delle colleghe di Concetta, che con lei si chiamavano “vendicatrici”, licenziate anche loro, ma che fortunatamente la NASPI l’avevano avuta tutta intera. Ma soprattutto nel libro c’è la storia di ciò che è diventato il lavoro, il suo mercato, nell’Italia di oggi. E la storia delle incapacità della politica, del sindacato, della società di interpretare le dinamiche del lavoro che cambia e di dare rappresentanza a chi oggi non ha voce, ai deboli.

Io non so se dietro alla svalorizzazione dei diritti, all’isolamento dei lavoratori, alla diminuzione delle tutele, all’impoverimento del valore sociale del lavoro ci sia un disegno ordito da qualcuno per meglio combattere conto le masse organizzate o, semplicemente, non si è stati in grado, chi aveva la responsabilità di governare i processi in atto nel mondo, di interpretare le nuove (o vecchi?) necessità dei lavoratori davanti a fenomeni epocali che hanno investito tutto il globo.

Quello che so, che appare evidente, è che le disuguaglianze sono aumentate ovunque, che molti padroni (o padroncini) hanno capitalizzato al massimo delle possibilità concesse dalle norme la chance di aumentare i loro profitti sottraendo diritti ai lavoratori. La parcellizzazione del lavoro nella maggior parte dei settori produttivi (edilizia, servizi, forniture, consulenze, manutenzione, trasporti, scuola, sanità) ha reso i lavoratori sempre più deboli ed esposti all’isolamento, anticamera della disperazione di persone come Concetta. E nel mondo alla rovescia che si è costruito in questi anni per alcuni diventa persino inaudito che Concetta e le sue colleghe accampino dei diritti, che si rivolgano al sindacato davanti ai ricatti dell’azienda che ha deciso prima di esternalizzare il loro lavoro, poi di disfarsene.

Ora, che da parte delle destre, o dei neo liberisti, o dei neocentristi di tutto il mondo si sia deciso di abbandonare al loro destino le nuove masse di precari, di sottopagati, di sfruttati, ci sta, è la loro natura. Il dramma è che la sinistra mondiale non è ancora stata in grado di dare rappresentanza a chi, oggi, è disposto anche a lavorare gratis pur di mantenere vivo un legame flebilissimo con il mondo del lavoro. E la sinistra italiana con la sinistra europea e mondiale, soffre ormai da anni di questa incapacità. Nonostante le buone intenzioni dei singoli, il presidio delle crisi industriali, la vicinanza espressa in vertenze che hanno caratterizzato il mondo del lavoro sui territori, l’impegno profuso nell’interessarsi alle vicende umane e lavorative del quartiere nel quale si vive e si prova a fare politica.

Ecco, io penso a Concetta e mi chiedo se lei (perché la sinistra, se pensa di svolgere un ruolo nella società di oggi, dovrebbe occuparsi innanzitutto di Concetta e di chi vive una condizione di assoluta precarietà lavorativa e personale), nelle prossime elezioni, potrebbe mai scegliere di sentirsi rappresentata da una sinistra che viene percepita come parte del problema, se non per connivenza sicuramente per incapacità nell’interpretare i bisogni altrui. Non che manchi l’empatia, ci mancherebbe. Ma, lungi dal pensare che solo chi vive sulla propria pelle i disagi di chi oggi non arriva alla fine del mese possa dar loro voce (non credo nel pauperismo di sinistra, insomma), la distanza tra le masse e chi vorrebbe rappresentarle oggi è enorme e non basterà, temo, la campagna elettorale che si terrà fino al 2 marzo prossimo per ribaltare la situazione. Ricostruire la rappresentanza dei deboli è un lavoro che prenderà anni, dentro e fuori del Parlamento.

Temo, insomma, che Concetta non voterà a sinistra. Al massimo si asterrà. E sarà una sconfitta per tutti.

Incompreso

Così Gad Lerner, ieri, commentava l’ennesima prova di forza dell’AD FIAT:

[…] “I diciannove lavoratori di Pomigliano posti ieri in mobilità rappresentano un costo annuo insignificante per la multinazionale dell’ auto: meno di quel che guadagna Marchionne in una settimana. Ma vengono sacrificati come ostaggi in una guerra che Fiat ha dichiarato non solo contro il sindacato metalmeccanico col maggior numero di iscritti, ma anche contro la magistratura italiana, cioè lo stato di diritto, e quindi contro le regole condivise della nostra collettività.” […]

[…] “Dalla rappresaglia contro gli iscritti alla Fiom ora la Fiat passa alla rappresaglia contro i lavoratori in genere. Diffonde la paura negli stabilimenti, trasmettendo l’ idea che “per colpa” dei pochi che hanno osato difendere i propri diritti facendo ricorso e ottenendo giustizia, a pagare potrà essere chiunque.” […]

Difficile non essere d’accordo. Però c’è chi pensa che l’atteggiamento di Marchionne sia semplicemente il frutto della volontà di modernizzare le relazioni indistriali del nostro Paese, nel quale l’AD FIAT è un incompreso, uno troppo avanti.

«Marchionne non vìola la legge quando cerca di praticare il modello di relazioni industriali “all’americana” che l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori consente. È la cultura dominante che lo respinge».

Troppo avanti, anche Pietro Ichino. Troppo cool. Si arriva a dire, come ormai si sostiene da tempo, che i diritti possono essere monetizzati. E così la dignità del lavoratore:

«Secondo la legge italiana, l’ad di Fiat ha il diritto di non riconoscere le rappresentanze del sindacato che non ha firmato alcun contratto collettivo applicato in azienda. Ma non ha il diritto, come potrebbe fare in America, di discriminare i suoi iscritti. Ciononostante, a mio avviso, il provvedimento adottato dal giudice in questo caso è inappropriato». «Di fronte a un caso come questo, in qualsiasi altro paese il giudice avrebbe adottato la sanzione più appropriata, che è quella del risarcimento del danno.

Forse l’onestà intellettuale di ammettere che FIAT un piano indistriale non ce l’ha mai avuto, ultimamente, non guasterebbe.

E comunque, se questo è il futuro della sinistra riformista e del PD…

 

Uscire dal “sistema”: una questione di sopravvivenza

Lunedì sera a L’Infedele Concita De Gregorio, con poche illuminate parole, ha spiegato chiaramente quale sia la strada affinchè il PD (parlo del mio partito, gli altri facciano come meglio credono) acquisti una rinnovata credibilità presso gli elettori. Premesso che, al di là delle responsabilità personali dei singoli, anche il PD fa parte del “sistema”. Il che non vuol dire necessariamente che i suoi esponenti siano persone “che rubano”, ma semplicemente che anche il PD ha accettato che la politica arrivasse a permeare con le sue ramificazioni ambiti che non erano di sua stretta competenza. Il tutto per garantire una perpetuazione di posizioni dominanti di singoli e di gruppi dirigenti nonché per garantire forme di finanziamento border-line. Premesso tutto ciò, allora, il rinnovamento non può avvenire ad opera di chi fa parte del “sistema”. Il “sistema” non può autoriformarsi. Lo ha ammesso, con molta onestà (anche se si vedrà se alle parole seguiranno i fatti)  il sindaco di Sesto, Oldrini, che dice che la funzione della sua generazione si è esaurita. Un ciclo è finito. Ecco l’ineluttabilità del cambiamento. Una nuova generazione di politici, non necessariamente giovani anagraficamente, si proponga alla giuda del PD e del Paese. Chi ritiene che far parte del “sistema” rappresenti la naturale vocazione del PD abbia il coraggio di raccogliere la sfida, ad esempio con primarie aperte alla partecipazione dei cittadini per la scelta dei candidati a Camera e Senato, di chi pensa che il PD debba essere altro. Se il PD non fa questo, sarà fagocitato dal “sistema” stesso. E dall’antipolitica. E perderemo tutti.