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I padroni assoluti

L’articolo di Irene Tinagli comparso oggi su La Stampa ve lo posto tutto. Perchè c’azzecca su tutto, parola per parola.

Qualche mese fa, con l’epilogo del governo Berlusconi e la rinuncia di maggioranza e opposizione a nuove elezioni, tutti pensammo che un’epoca si stesse chiudendo. Pensavamo che quella scelta fosse il preludio di una grande fase di riorganizzazione e rinnovamento politico: nuova legge elettorale, nuovi leader, nuovi programmi, nuova fase politica. Qualcuno parlava addirittura di una terza repubblica alle porte. Ma finora non è stato così. E basta vedere come i partiti hanno usato questi mesi e come si stanno muovendo oggi, per capire che non accadrà nemmeno nel tempo che ci resta da qui alla primavera 2013. Berlusconi ha appena annunciato che si ricandiderà come leader del Pdl, mentre il partito democratico sta di nuovo temporeggiando sul tema primarie. Alla vigilia dell’assemblea nazionale del Pd di venerdì in cui il tema è esploso in maniera più virulenta, Franceschini aveva dichiarato che le modalità per identificare il candidato premier sono ancora da decidere e che, se proprio si dovessero fare le primarie, Bersani sarebbe «il» candidato del Pd (come se eventuali altri membri del Pd che decidessero di presentarsi alle primarie fossero i candidati di qualche altro partito).

Non importa se poi Berlusconi cambierà di nuovo idea o se il Pd farà davvero le primarie aperte dentro al partito: quello che colpisce di queste dichiarazioni è il tono e il messaggio che lanciano. E’ il modo con cui questa classe dirigente, che ci accompagna da decenni e che ci ha portato sull’orlo del disastro economico e sociale, si ripresenta di fronte ai cittadini col piglio di chi è il padrone assoluto della vita politica del Paese, e che quindi si riserva il diritto di decidere se, quando e come un rinnovamento sarà concesso.

Una spocchia che denuncia non solo una visione della politica ma anche del rapporto intergenerazionale e dei processi di rinnovamento completamente distorta. Una mentalità perfettamente sintetizzata dal segretario del Pd Pierluigi Bersani quando qualche mese fa, replicando a distanza al sindaco di Firenze Matteo Renzi, dichiarò che il partito era apertissimo ai giovani, purché si mettessero «a servizio». Un’immagine terribile, che evoca i giovani come materiale ad uso e consumo dei dirigenti e delle logiche di partito. Berlusconi, che ama definirsi uomo di fatti più che di parole, non ha fatto dichiarazioni del genere ma ha semplicemente agito seguendo questa stessa logica quando ha indicato Alfano come suo successore, per poi buttarlo in un angolo pochi mesi dopo e riproporsi egli stesso in prima linea. E non danno esempi migliori le alte dirigenze di partiti più piccoli come la Lega Nord o l’IdV.

Al di là delle ripercussioni che questa situazione politica ha sulla nostra immagine e credibilità internazionale, non va sottovalutato l’effetto che esso ha al nostro interno. Atteggiamenti e dichiarazioni di questo genere, infatti, non solo mortificano i cittadini e la loro voglia di cambiamento, ma anche tutte le migliaia di persone giovani e meno giovani che da anni si battono con passione all’interno dei partiti per un loro rinnovamento, per un ricambio di idee e di persone vero e profondo.

Fino a un paio di anni fa si diceva che la colpa era delle giovani leve, che non erano abbastanza critiche, indipendenti, che non avevano il coraggio di sfidare i propri leader, di discutere, di proporre, di lanciare messaggi chiari. Ma negli ultimi anni di giovani indipendenti e determinati abbiamo cominciato a vederne, in entrambi gli schieramenti. Le elezioni amministrative, per esempio, sono state occasioni in cui alcune di queste figure «rinnovatrici», più o meno giovani, hanno saputo mettersi in gioco ed affermarsi con successo. Ciascuno di questi successi avrebbe dovuto lanciare un segnale chiarissimo ai vertici nazionali dei partiti. E invece niente.

Ma se nemmeno dissentire e proporre, se nemmeno costruirsi un profilo autonomo e di valore nelle amministrazioni locali o nelle professioni serve per legittimarsi nelle dinamiche partitiche, cosa devono fare i giovani e i rinnovatori di ogni età per poter cambiare davvero qualcosa?

E’ davvero difficile dare una risposta a questo interrogativo. Ma di fronte alla situazione attuale sembrerebbe che l’unica alternativa per rompere l’arroganza di chi si crede ancora il padrone del pollaio, sia uscire dal recinto e provare a costruire qualcosa di nuovo con quello che il mondo fuori dai vecchi partiti ha da offrire: nuove esigenze, idee e risorse. Un percorso difficile, che richiederà a questi rinnovatori di smettere i panni dei ribelli rompiscatole e di indossare quelli dei leader a tutto tondo, con i rischi e le responsabilità che cio’ comporta. Un percorso che potrebbe anche non portare i risultati sperati, ma che almeno darà agli italiani quello che oggi non hanno: una scelta.

Il valore degli immigrati

Nel momento in cui molti sono in tensione, aspettando di vedere se e quanto le prossime manovre toccheranno stipendi, case o pensioni, il Presidente Napolitano ci stimola ad alzare lo sguardo.
Ci invita, finalmente, a pensare anche agli «altri». Alle minoranze religiose, culturali, e, in particolare, a tutti quei bambini nati in Italia da stranieri che l’Italia si ostina a non voler considerare suoi cittadini. E così facendo Napolitano ci fa riflettere su cosa significa essere comunità inclusiva, che accoglie, che cresce senza discriminazioni e senza chiusure. Una riflessione importante non solo per il suo lato profondamente umano e valoriale, ma anche per il suo aspetto sociale ed economico.
Da sempre chiusura e protezionismo, tanto nelle società quanto in economia, portano isolamento e regressione. L’apertura non solo porta al proprio interno nuove energie, nuove idee e più dinamismo, ma proietta all’esterno l’immagine di una comunità forte, attrattiva, che non teme il confronto e le influenze esterne, ma che le integra e si alimenta di esse. E’ stata questa, per esempio, la grandissima forza degli Stati Uniti nei due secoli passati…

…Ma per capire il valore che gli immigrati possono portare in una società non c’è bisogno di guardare alla storia e al passato degli Stati Uniti: basta aprire gli occhi e saper vedere l’Italia di oggi. Gli immigrati rappresentano ormai una componente fondamentale della nostra economia e della nostra società, molti settori crollerebbero senza di loro. Come ci dicono i dati dell’Istituto Tagliacarne, che assieme a Unioncamere monitora il contributo degli stranieri alla nostra economia, ci sono settori, come quello delle costruzioni, in cui addirittura un quarto del valore aggiunto prodotto è dovuto agli stranieri. Sempre secondo le stime del Tagliacarne, il contributo complessivo degli stranieri al valore aggiunto prodotto in Italia è stato, nel 2009, di oltre 165 miliardi di euro, il 12,1% del totale.
Non solo, ma attraverso il loro lavoro gli immigrati contribuiscono anche ai nostri servizi e alle nostre pensioni. Pochi sanno che i contributi versati dagli immigrati all’Inps ammontano a sette miliardi e mezzo di euro, ovvero il 4% di tutte le entrate dell’Inps, una cifra altissima soprattutto se si considera che sono pochissimi gli immigrati che, invece, beneficiano di pensione dallo Stato italiano. E sono pochi non solo perché molti devono ancora maturarla, ma perché sono tanti quelli che dopo alcuni anni tornano poi nel loro Paese di origine lasciandoci in dote i loro contributi. Questo significa, come ben documenta l’ultimo libro di Walter Passerini e Ignazio Marino («Senza Pensioni», Chiarelettere), che gli immigrati stanno supportando in modo sostanzioso anche il nostro sistema di welfare sociale oltre che economico. E possiamo immaginare quanto maggiore potrebbe essere tale contributo se riuscissimo finalmente ad affrontare questo tema con meno foga ideologica e meno paure, aiutando molti stranieri ad integrarsi, cominciando dal rendere i loro figli, che di fatto sono italiani, cittadini a tutti gli effetti.

Le conseguenze di un’apertura di questo genere sarebbero molto importanti, e non solo in termini economici. Pensiamo a cosa possa significare per una famiglia, e soprattutto per dei bambini e dei giovani, sentirsi parte integrante della società in cui vivono e lavorano, sentirsi portatori degli stessi diritti e doveri di chi gli sta intorno. L’emarginazione genera rancore, odio, rende inevitabilmente arrabbiati contro chi ti esclude. L’integrazione, quella piena e sincera, dà e genera fiducia, coesione, identità collettiva. E questo aiuta a prevenire malesseri sociali, conflitti, criminalità. E aiuta a fare fronte comune contro i problemi e le crisi, in nome di un Paese che non è soltanto di quelli che in qualche modo se lo sentono nel sangue, ma di tutti quelli che lo hanno scelto con passione, determinazione e amore.
Irene Tinagli, La Stampa, 23/11/2011