Grandi Opere Vs Opere Grandi

Dopo aver partecipato alla manifestazione degli studenti #FridayForFuture ho fatto un salto anche a Piazza del Popolo, dove si sono riuniti gli edili (e non solo) di CGIL, CISL, e UIL per chiedere al governo di sbloccare i cantieri e far ripartire il settore delle costruzioni. 

Ho ritrovato le facce di molte delle persone che vedo all’opera quando vado in cantiere, non esattamente gli stessi ma comunque i volti della fatica, del sacrificio, del lavoro duro. Nutro per questi operai un rispetto sacro, anche quando alcuni mi fanno incazzare vedendoli poco attenti spesso non per colpa loro, alle condizioni di sicurezza nelle quali svolgono il proprio lavoro.

Sono rimasto in piazza un po’, a guardarmi in giro e ad ascoltare le parole che provenivano dal palco.

Sia chiaro, penso anche io che il settore delle costruzioni abbia bisogno di nuova linfa, perché troppi posti di lavoro si sono persi negli ultimi anni e perché troppo alto è il gap infrastrutturale che l’Italia sconta sia rispetto ad altri Paesi, sia rispetto a differenti aree geografiche del nostro stivale. Ma non si può pensare che solo le Grandi Opere siano portatrici di sviluppo e siano capaci di rimettere in moto l’economia.

Certo, la Sicilia sconta anni di mancati investimenti, di opere non realizzate o realizzate male, di trasporti su gomma affidati ad amici degli amici che hanno impedito lo sviluppo di una rete ferroviaria degna di un paese civile, e quindi ben vengano gli investimenti sulla direttrice Palermo-Catania-Messina. L’AV si ferma a Salerno, e sebbene la linea ferroviaria tra Salerno e Reggio Calabria sia a doppio binario permangono criticità di tracciato e di infrastruttura che rendono ancora troppo lunghi i tempi di percorrenza per raggiungere lo stretto di Messina. Del Ponte non ne parlo per pietà. Nel tempo la Napoli-Bari sarà raddoppiata, sono già partiti i primi due lotti dell’opera, mentre un pezzo del raddoppio alle porte di Foggia è stato già completato. Andare da Roma sull’Adriatico con il treno in tempi ragionevoli resta ancora un miraggio, mentre si sta invece cercando di arrivare al raddoppio completo della linea Adriatica, risolte le criticità delle gallerie di Cattolica, Ancona e Ortona. Parlo di ferrovie perché è il mondo che conosco, e perché ritengo che vada comunque, se parliamo di grandi infrastrutture, privilegiato il trasporto su ferro anziché quello su gomma, tanto nelle città quanto per collegare i grandi e piccoli centri produttivi del Paese. Anche per questo ritengo che andrebbe fatto un serio studio per capire quali delle ferrovie nel tempo dismesse potrebbero essere ripristinate con investimenti pubblici che finanzino non solo i lavori necessari a rimetterle in funzione ma anche un servizio universalistico di cui far godere pendolari e turisti.

Per quanto riguarda le strade, le cronache di questi mesi ci mostrano in tutta la sua drammaticità quanto sia importante la manutenzione dell’esistente. Proprio per questo non concordo con quanto sostenuto nel corso della manifestazione unitaria degli edili che una delle opere prioritarie per il Paese sarebbe l’autostrada Roma-Latina (e la bretella Cisterna-Valmontone). Ne ho avuto modo di parlare varie volte nel passato, e potete trovare qualcosa qui, qui, qui e qui.

Il succo è che spendendo molto ma molto meno si potrebbe mettere in sicurezza, iniziando in tempi relativamente brevi, la Pontina che continua a mietere vittime e che negli ultimi mesi versa in condizioni pietose, garantendo quindi sia un certo livello di occupazione, sia la possibilità di sviluppo virtuoso dei territori valorizzando le bellezze naturali, paesaggistiche, culturali dei territori.  In termini infrastrutturali, poi, da anni si discute dell’opportunità di realizzare una metropolitana leggera Roma-Latina che consentirebbe comunque di collegare Roma e Latina in maniera funzionale e rispettosa del territorio Ecco un esempio di come si possa uscire da alcuni dogmi, realizzare opere utili e contemporaneamente rivitalizzare il settore delle costruzioni (e non solo). Occorre solo avere chiaro quale modello di sviluppo si vuole adottare, e a mio avviso uno sforzo in più anche lato sindacale si potrebbe fare. Proposte non ne mancano, occorre solo essere laici abbastanza da volerle discutere ed adottare.

Ovviamente non posso che essere d’accordo sul fatto che, in generale, il Paese abbia bisogno di un piano di manutenzione straordinaria di edifici pubblici: scuole, ospedali, palazzi di giustizia, carceri. Da dotare di impianti fotovoltaici, da efficientare dal punto di vista energetico. Tanti piccoli interventi che favorirebbero anche mano d’opera e imprese locali, un circolo virtuoso per tutto il sistema.

E quindi non riesco a capire chi sostiene che per la Torino-Lione passi lo sviluppo di un intero paese. Personalmente sono stato sempre contrario a quell’opera, perché già ai tempi delle prime discussioni era evidente come fossero prive di fondamento le analisi sui futuri traffici merci, e nemmeno si può sostenere più di tanto che un’opera abbia un effetto moltiplicatore sugli scambi commerciali perché se c’è poco da trasportare anche un’opera nuova di zecca trasporterà ben poco.  Ed era comunque evidente, allora come adesso, che attorno a quell’opera comunque ci fossero posizioni ideologiche, tanto favorevoli quanto contrarie, che andavano al di là del merito. Nel frattempo i lavori sono andati avanti, anche se per il solo cunicolo esplorativo, però adesso non so quanto senso abbia bloccare tutto. Paradossalmente l’opera, qualora si decidesse di farla, credo dovrebbe costare di più e non di meno, nel senso che occorrerebbe sedersi, definitivamente, attorno ad un tavolo con le popolazioni locali e definire una partita di opere compensative che diventino patrimonio condiviso di quelle comunità e rassicurarli definitivamente sul bassissimo impatto ambientale della fase di realizzazione. Faccio presente che un’opera di quel genere, anche più mastodontica, si sta già costruendo nel nostro Paese,  si chiama tunnel del Brennero e non sento tutte queste polemiche. Forse perché non c’è la parola “TAV” davanti a “tunnel del Brennero”. A parte la galleria di base che sarà la più lunga del mondo con i suoi 64 km, sul versante italiano ci sono altre opere “accessorie”. Tra un po’ inizieranno a spostare il fiume Isarco, per dire. Però non se ne parla. Voglio solo dire che bisognerebbe mettere da parte un po’ di massimalismo e provare a ragionare, cercando d tenere insieme tutto: le esigenze delle popolazioni locali, la credibilità di una nazione che non può cambiare accordi internazionali a seconda delle maggioranze di governo perché si mette a repentaglio la credibilità di una a intera nazione. Senza però attribuire a una linea ferroviaria proprietà taumaturgiche per l’economia di una Paese di 60 milioni di abitanti.

In definitiva, quindi, nessuna preclusione ideologica per le Grandi Opere ma probabilmente per il nostro Paese avranno maggiore effetto anticiclico, in un periodo di stagnazione, Opere Grandi.

Romanzo musicale

Per uno nato nel 1971 farsi una propria cultura musicale, a cominciare da quando si è piccoli, poteva dipendere da diversi fattori: genitori appassionati, fratelli maggiori rockettari, amici gajardi, predisposizione personale. A me non so bene cosa sia successo, ma di certo una mano grandissima me l’ha data la radio.

Era il 1979 e il riff di My Sharona  di The Knack, ascoltato da qualche parte, deve avermi colpito a tal punto da condizionare tutto quello che sarebbe successo in futuro. Andai da Consorti, che era un negozio a Viale Giulio Cesare dovo oggi c’è La Feltrinelli, o forse in un negozio che mi sembrava grandissimo a Via Baldo degli Ubaldi (non è che vivessi a Roma, ci andavo quando andavamo a trovare i miei nonni, che abitavano ai confini tra Valle Aurelia e Balduina). Poi magari mi colpì pure la copertina del 45 giri che ho ancora conservato a casa dei miei, con Sharona in bella mostra.

Fatto sta che le origini della mia passione per la musica sta tutta lì.

My Sharona.

Seguì Phil Collins, un paio di anni dopo, In The Air Tonight sentita sempre per radio, che poi non conoscevo l’inglese e dicevo “It Te Aronig”, e mia zia Grazia che mi accompagnò sempre da Consorti non capiva cosa dovesse cercare.

Che poi questo di Phil Collins sarà stato uno dei primi video che ho visto, non se se a Discoring. Di lì a poco sarebbe nata DeeJay Television  con tutto quello che ha comportato per noi che siamo usciti vivi dagli anni ’80.

Negli anni successivi qualche caduta che non starò a raccontare (ciascuno ha i suoi scheletri nell’armadio), comunque compravo qualche 45 giri che consumavo con questo (regalato dai cugini di Napoli):

Come dicevo alti e bassi ma poi, di nuovo, scatta qualcosa e mi faccio tutta la gita di seconda media con Rebel Yell di Billy Idol nelle orecchie, sparato con un simil-walkman (a casa nostra sempre imitazioni) .

Nel frattempo tra il 1982 e il 1983 due apparizioni di Vasco Rossi a Sanremo (e come non citare le discussioni  alle medie con Giuseppe che aveva capito che Vasco aveva qualche problema di droga, mentre io no…) che me lo hanno fatto amare per anni (il 33 giri di Va Bene, Va bene Così l’ho consumato) e l’esibizione shock di Peter Gabriel.

Credo che da allora Sanremo l’ho cassato, almeno fino a La Terra dei Cachi con Elio e i suoi amici travestiti da Rockets e con la parentesi di Springsteen di cui parlerò dopo.

E così arrivo alla prima vera svolta della mia vita musicale, grazie a Giorgio  Noce, nell’estate del 1985. Giorgio all’epoca viveva a Caserta, la sua famiglia si conosceva con la famiglia di mia zia che  viveva a Napoli e comunque Giorgio veniva a villeggiare l’estate a Marina di Minturno. Era un pazzo scatenato, ci raccontava dei suoi viaggi in Inghilterra fatti durante il periodo estivo già negli anni precedenti e un po’ per questo, un po’ mi sembra per qualche cugino altrettanto fuori di testa, già a 15 anni aveva una cultura musicale che a me pareva sconfinata. Iniziò a registrarmi su musicassette di tutto, dagli Smiths agli U2 ai Dire Straits, dai Genesis a Jackson Browne (una versione live di Stay che mi faceva venire i brividi) ai Pink Floyd. E tanta altra roba. Ma soprattutto Giorgio mi registrò The Song Remains The Same dei Led Zeppelin e Born To Run +Darkness On The Edge Of Town di Bruce Springsteen.

Passai l’estate chiuso in salone ad ascoltare a tutto volume (quando non c’erano i miei) e ad imitare con la mazza della scopa sopra una sedia l’assolo di Jimmy Page. E ho detto tutto.

E poi l’incontro con Springsteen fu esplosivo, un amore mai finito, l’unico amore musicale immutato negli anni. Immutato proprio perché Bruce ti scava nell’anima, e ti accompagna nella vita, come un fratello maggiore, come il tuo migliore amico. Un amore condiviso con due dei miei amici eterni, Emiliano e Simone, e forse non è un caso se me li sento come Blood Brothers.

E quindi il 1985, con le passioni musicali, le amicizie, l’inizio delle superiori alle porte e questa estate esplosiva con Live Aid che ci fece ascoltare praticamente tutti gli idoli che stavano facendo in me una breccia che mi avrebbe cambiato la vita per sempre.  E se volete avere un’idea di quello che fu Live Aid, guardate questi due video.

Gli U2 sono rimasti con me per un bel po’, ma nel frattempo all’inizio del liceo la seconda botta, grazie ai compagni di classe di mia sorella, più grande di me.

Francesco (che non c’è più cazzo e lo porto sempre nel cuore) mi fa avere due cassette: Live After Death degli Iron Maiden e World Wide Live degli Scorpions. Non si capisce più niente. L’heavy metal, e poi il trash, il death, lo speed. I Metallica. Boom. Grande gioia di mio padre che torna a casa e mi urla di abbassare la radio con la quale mandavo a manetta i nastri. Diciamo che tra lui e Klaus Meine c’era una certa incompatibilità. Anche con la batteria di Lars Ulrich c’era una certa incompatibilità.

E quindi inizia il periodo dei concerti, il primo in assoluto Eric Clapton il 31 ottobre del 1985 al Palamaggiò di Caserta, in compagnia di Antonio, figlio di un collega di mio padre. E poi, negli anni tanti e tanti altri.

Questa passione per la musica, e quel po’ di conoscenza della materia che mi ero costruito ascoltando di tutto, ha fatto si che durante una gita, nel 1987, trovai un terreno comune con altre persone, con le quali magari non condividevo proprio gli stessissimi gusti ma con le quali scattò un feeling. Fabio e Gianluca su tutti. Fabio che si portava la chitarra e con Roberto sapeva  suonare tutte le canzoni di Simon & Garfunkel, era fissato con i Police e Sting e Nik Kershaw. Insomma iniziai ad allargare ulteriormente i miei orizzonti. Gianluca, che conoscevo dalle medie, studente di violino al conservatorio ma che sapeva suonare tutti gli strumenti.

Così un pomeriggio vado da Gianluca, ci mettemmo ad ascoltare musica e ad un certo punto, visto che c’era lì la sua batteria, mi dice perché non provi. Credo che ci mettemmo a suonare qualcosa dei Maiden che ovviamente per me erano impossibili da riprodurre, e però dai quei primi disastri inizia ad andare da lui più spesso provando a fare cose semplici, e quindi ci venne l’idea di mettere su  un gruppo. Chiamammo Fabio, Gianluca si mise al basso e iniziammo a strimpellare le prime cose. Da allora, siamo stati in simbiosi per altri quattro anni. Quattro anni di prove, di uscite, di serate, di concerti visti insieme, di concerti. Gianluca è passato alla chitarra, sulla quale riusciva ad essere virtuoso almeno quanto non lo fosse al violino, ed entrò Dante al basso, Paolo prima, Mimmo poi, Saverio dopo alle tastiere. Cantavano Fabio e Dante che si alternavano a seconda dei pezzi. Facevamo cover, dagli U2 ai Metallica, dai Pink Floyd ai Rolling Stones, e facevamo tanto, ma tanto casino. Eravamo gemellati con i Prolano Strasse, il gruppo dei fratelli de Fabritiis, con Giuliano, Marcello e Tony che adesso è il cantante del Banco.

Le prove a casa di Fabio, dove un giorno arrivai con la mia batteria (sei tom, timpano cassa e rullante più svariati piatti!!!) comprata da un tipo assurdo di Castelforte che si narrava facesse cose strane, poi a casa di Gianluca, poi nel garage dei miei, infine nella scuola media di Castelforte dove venivano a sentirci personaggi ai limiti dell’inverosimile, Ernesto buonanima che ci scarrozzava dappertutto, i gemelli Toti, Vincenzo Mercione, Stefania Cazzamatta, Almerindo lo stilista, Frankie.

Si ricordano serate memorabili dalle parti nostre, il veglione di capodanno 1989 alla Taverna d’Oro, i concerti in Piazza a Scauri alla festa dell’addio all’estate sempre nel 1989, il concerto mitico al liceo scientifico con tutti i nostri amici assurdi che erano venuti a pogare e fare un casino indicibile,  le serate al circolo velico di Formia interrotte dall’arrivo della polizia, le feste a casa di Giando e a casa dei fratelli de Fabritiis nel 1990, il concerto a San Cosma e la serata successiva per ripagare i debiti accumulati per organizzare quell’evento.

Intanto si inizia l’università, e il sabato tutti a San Cosma alle prove, e le uscite, e le minchiate in macchina con Roberto e Giovanni Caruso, Gianfranco Shock, Dino, Peppe Basitto, Amedeo, Luigi, Roberto. Nelle serate romane infrasettimanali, al culmine di giornate assurde tra lezioni e studio stentato, la scoperta solitaria, nel buio della stanza e dal letto, di Planet Rock , trasmissione radiofonica storica che mi apre altri mondi. Su tutti i Nirvana, visti al Castello , il 19 novembre del 1991 (con gli Urge Overkill a fare da spalla).

E poi i Negazione, conosciuti grazie ai miei amici punk/underground dell’epoca Germano e SuperMario, e anche dei Negazione, e di Marco Mathieu ho già scritto qui.

Anni fantastici. Anni a fare i conti con le proprie inadeguatezze, con le proprie incertezze, con i propri sogni.

Interrotti, per me, nel 1992, con l’arrivo  della serietà e delle responsabilità che erano troppe da sopportare per le mie spalle. Lasciai il testimone a Danilo, e poi i ragazzi iniziarono per un periodo a fare sul serio, e partirono per qualche data a fare da spalla a Roberto Ciotti.

Quindi, batteria lasciata a marcire nel garage dei miei, con la passione per la musica sempre intatta, tanta roba da ascoltare, da conoscere.

Negli anni, la presenza continua, rassicurante, protettiva di Bruce Springsteen, di pure cui ho già scritto qui.

Passa il tempo, passa qualche anno, e si rinasce, si trova la gioia di condividere altra musica ancora, la magia del jazz, del piano, e gli Afterhours, e sempre Springsteen.

Poi, un giorno, quello che non ti aspetti. Daniele, che lavora con te, chiacchierando alla macchinetta del caffè ti dice che suona la chitarra in un gruppo.

Ah si?

Anche io suonavo, la batteria, ma ho smesso da tempo.

Maddai.

Lo sai che cerchiamo un batterista?

Vabbè mai non suono da troppo tempo e poi non ho mai saputo suonare.

E che ti frega, vieni a provare.

Ok.

E così per gioco si ricomincia, con i Foolin’ Dolls dell’epoca, a suonare tutti pezzi, musica e testi,  scritti da Daniele che suona anche la chitarra. Troviamo ospitalità nella Jam House.

Qualcuno se ne va, Daniele decide di credere in me (e gliene sarò sempre grato) e così i Foolin’ rinascono dalle loro ceneri, entrano Cristina e Alessandro ed eccoci qui, ancora a divertirci con la musica.

Due parole sulle primarie del PD (poi basta)

Parlando sempre da osservatore esterno, della giornata di domenica la cosa da salutare con maggiore soddisfazione è la partecipazione. In assoluto numeri inferiori rispetto al passato, ma visto lo stato di salute del PD in questo primo anno di governo fasciogrillino, e viste le batoste nei recenti appuntamenti elettorali,  un milione e settecentomila persone  (in carne ed ossa) che si sono messe in fila non sono poche, anzi. Al di là dell’esercizio di democrazia occorre anche capire da chi è formato questo milione e settecentomila persone che hanno votato.

Uno zoccolo duro di iscritti/militanti/elettori.

Un po’ di persone per dare una lezione a Renzi e ai renziani, nella speranza che davvero mettessero in atto la minaccia di andar via qualora avesse vinto Zingaretti.

Un altro pezzo per dare un segnale di resistenza democratica al governo.

E infine un’ultima porzione di partecipanti che hanno visto in Zingaretti la possibilità di una virata a sinistra del PD, nella speranza di un effetto positivo a catena per tutto il mondo disgregato della sinistra.

Vorrei soffermarmi sul secondo e sul quarto punto.

Uno dei mali della politica è il trasformismo. la politica italiana non è esente, e il PD nemmeno. Come si suol dire, molti di quelli che si sono professati bersaniani  prima, renziani poi, non hanno avuto alcuna remora a spostarsi con anticipo dalla parte di Zingaretti, avendo addorato il fieto del miccio, come direbbe Eduardo. Sempre pronti a salire sul carro del vincitore, anche in anticipo rispetto ai risultati, anzi condizionandoli sicuramente. Ma le teste sono sempre quelle,  e i modi pure, ed esprimono una concezione politica personalistica, clientelare, familistica (ripeto, da certe storture si salvano davvero in pochi, nel panorama politico italiano) che  costituisce una delle ragioni che ha alimentato la disaffezione dei cittadini alla partecipazione e  che in una certa misura ha contribuito all’allontanamento dei cittadini dai partiti di centro-sinistra, i quali hanno sicuramente un elettorato liquido più esigente rispetto a questioni di tipo “morale”. Potrei fare l’esempio della provincia di Latina, dove il 70% prendeva Renzi e il 70% prende Zingaretti, e gira che ti rigira salvo qualche eccezione i dirigenti sempre quelli sono, e si spostano laddove hanno più convenienza ad andare. Ecco, se Zingaretti vuole rendere ll PD appetibile per un certo tipo di elettorato che ha abbandonato la casa da anni, dovrà fare uno sforzo immane per liberarsi di queste incrostazioni. Avrà la forza, o la voglia, di farlo, quando ad esempio un pezzo delle vecchie classi dirigenti ex-renziane lo sostengono in maggioranza nella Regione Lazio?

Passando alla questione delle aspettative sulla direzione politica che Zingaretti darà al PD, mi permetto di coltivare qualche dubbio di fronte all’entusiasmo che alcuni manifestano con l’arrivo del neo-segretario. Io vorrei solo rammentare che in questa fase congressuale che è durata pressoché un anno non mi sembra di aver sentito parole di autocritica su quanto fatto negli anni di governo del PD, a partire dal 2011 e per finire al governo Gentiloni. Nulla sugli accordi con la Libia che hanno istituzionalizzato i lager in quel paese, nulla sulla buona scuola, nulla sul jobs-act, nulla sulle trivellazione, nulla su un piano nazionale dei trasporti, nulla sui morti sul lavoro, nulla sul lavoro povero e senza diritti, nulla sul consumo di suolo, nulla sulla lotta all’evasione fiscale, nulla sulle pensioni, sulla sanità (su questo aspetto vi consiglio di leggere Elisabetta Canitano). Non si può pensare di risultare credibili agli occhi di un popolo vittima di una diaspora e soprattutto nelle menti di un blocco sociale martoriato dalla crisi e dalla precarietà e dall’aumento delle disuguaglianze presentandosi in perfetta continuità con un recente passato che ha lasciato solo macerie nel Paese. Se pensi di rappresentare gli ultimi con ricette di destra, pensando che sia ancora il mercato a dover governare tutto,  che bastino gli incentivi alle imprese, tagliare il cuneo fiscale  e una dose massiccia di investimenti pubblici per ridare fiato all’economia, beh, allora abbiamo già dato. Il Paese ha già dato. Se invece Zingaretti mostrerà di voler allontanarsi da tutto questo, dare un taglio al passato, fare una seria autocritica e cambiare strada beh allora potrebbe aprirsi uno spiraglio per un confronto con altri pezzi della sinistra.  Certo il primo passo da segretario, dal valore politico simbolico altissimo, ossia portare il suo sostegno al movimento SI-TAV, non lascia ben sperare. Perché si parla di tattica (mettere in difficoltà il governo) e di strategia (una certa visione delle grandi opere e del modello di sviluppo del paese), mentre altre situazioni (crisi aziendali tipo Pernigotti, emergenze ambientali tipo Taranto, sfruttamento dei lavoratori tipo Amazon) avrebbero meritato di essere messi al primo posto nelle attenzioni del segretario di un partito che vuole ricucire lo strappo con pezzi di società che non riesce più a rappresentare.

Primarie PD? No, grazie

Nei giorni scorsi, tra il serio e il faceto, ho socializzato il mio dilemma in merito alle primarie del PD, ossia se andare a votare Zingaretti per favorire l’uscita dei renziani oppure restare a casa.

Il PD non è più il mio partito dal 2015, ne sono uscito con sofferenza dopo che gli ultimi anni di permanenza erano stati essi stessi una sofferenza. Primarie ne ho viste abbastanza, e cio che in quell’occasione mi dava alquanto fastidio era il vedere in quelle giornate venire al circolo, o al gazebo, persone che con il PD non ci azzeccavano niente ma niente. Cammellati, fancazzisti, fascisti,  ex che speravano in qualcosa di nuovo. Ecco, io da ex, attualmente e credo per molto tempo ancora, anche da un PD de-renzizzato non spero proprio niente.

In questi mesi, e in questa campagna per la segreteria, nessuno dei candidati ha messo in discussione le politiche migratorie che hanno portato agli accordi per istituzionalizzare i lager libici, nessuno ha parlato di reintroduzione dell’art. 18, nessuno ha parlato di come combattere il lavoro povero e senza diritti, nessuno ha parlato di come ricucire il rapporto con le periferie, di come far muovere il paese senza far obbligatoriamente ricorso a opere faraoniche (tutti d’accordo per la Roma-Latina) e la Cisterna-Valmontone), di come tutelare sul serio l’ambiente, di come rendere la sanità pubblica efficiente e accessibile a tutti in tempi decenti.

Nessuno nel PD parla più di Angelo Vassallo.

Potrei continuare.

E quindi non potrei recarmi ai gazebo nemmeno come potenziale elettore. Come dicevo al compagno Simone, è un evento che vedo remotissimo, anzi di più. Posso auspicare che un PD rinnovato negli uomini e nelle donne e che sappia fare una seria autocritica sugli errori del passaro, nel tempo, possa diventare interlocutore serio e credibile anche per noi che vaghiamo nella galassia della sinistra corpuscolare, ma ho troppo rispetto per la comunità di uomini e donne (non tutti, sia chiaro) che ancora ne fanno parte per andare a scegliere il loro segretario.

Auguro a loro buona fortuna.

Il grande inganno

Nel silenzio quasi assoluto dei media e delle cronache e nel segreto delle trattative tra governo e regioni si sta consumando il più distruttivo degli inganni mascherato da riforma costituzionale. L’autonomia che si sta per concedere a Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna equivale alla disgregazione della Repubblica per come è stata concepita dai padri costituenti nel ’48.  La secessione delle regioni ricche, in virtù del principio perverso del mantenimento  nei territori del 90%  degli introiti fiscali mette fine al principio di perequazione tra regioni di uno stesso stato nonché al principio di solidarietà. Chi è ricco sarà più ricco perché nelle menti razziste, classiste e becere dei proponenti la riforma chi ha tanto merita sempre di più, e chi ha poco deve arrangiarsi. In questo senso le parole infami del Ministro dell’Istruzione non lasciano  spazio a dubbi e mette ancora una volta in evidenza il principio disgregatore dello Stato che muove la Lega sin dalle sue origini. In mezzo, le popolazioni del Sud Italia che hanno affidato le proprie sorti al ministro della malavita e a M5S sperando di raccattare le briciole di provvedimenti di carattere neo-assistenzialistici e si troveranno con una mano davanti e una di dietro, tra servizi sempre più scadenti e clientelismo, camorra e mafia sempre più pervasive, perché saranno le uniche a garantire la presenza che lo Stato non potrà più garantire.

Colpisce, tra tutti, l’atteggiamento del PD e del presidente della Regione Emilia Romagna Bonaccini, che porta nel baratro una tradizione di buon governo che sapeva farsi carico dei più deboli senza egoismi e che invece si fa carnefice di chi, scontando responsabilità non sue, è rimasto indietro. Povera Emilia Romagna.

E del resto tutto nasce dal governo Gentiloni che ha concesso alla trattativa con le regioni quanto nemmeno la controriforma costituzionale di Renzi aveva osato concedere.

Questa la battaglia delle prossime settimane, che deve riguardar tutti, cittadini, sindacati, associazioni, uomini e donne che credono ancora nella solidarietà tra pezzi di uno stesso Stato.

Quota 100: provvedimento espansivo?

Dal basso della mia relativa conoscenza di questioni economiche, mi viene comunque da fare qualche considerazione su quota 100 (che, come s’è ormai abbondantemente capito, è solo una ulteriore possibilità data al lavoratore di uscire dal mondo del lavoro per raggiunti limiti di età o di contributi, a Legge Fornero vigente)  e sul millantato effetto espansivo di tale provvedimento sul ciclo economico del Paese.

Prima cosa, il pensionato avrà un reddito da pensione inferiore a quello percepito quando ancora era a lavoro, quindi avrà una capacità di spesa inferiore. C’è il TFR/TFS, direte voi. A parte il fatto che non si percepirà nella sua interezza appena finito di lavorare, ma non immagino spese folli dei neo-pensionati con il gruzzoletto a disposizione. Magari un bel viaggio, qualche bel viaggio, ma non penso a ostriche, champagne, vestiti ogni giorno. Piuttosto, le somme saranno accantonate per assicurarsi una vecchiaia serena, o per aiutare i figli nel momento dell’acquisto di una casa, per il matrimonio, in caso di difficoltà. Quindi, di quale ripresa dei consumi parliamo?

E poi, non esiste alcuna correlazione tra persone che vanno in pensione e persone che sono assunte. Insomma, non esiste alcun 1:1. Anzi.  C’è  invece il rischio di aprire ulteriori buchi nei bilanci dell’INPS. Un lavoratore alla fine del suo percorso lavorativo dovrebbe guadagnare considerevolmente di più rispetto ad un neo assunto, e di conseguenza i contributi dei neo assunti saranno notevolmente inferiori. Quindi per coprire i contributi dei pensionati serviranno un bel po’ di neoassunti se si vuole tenere il sistema in equilibrio. Se poi si vogliono truccare i conti basta sostituire Boeri. I conti torneranno magicamente.

Insomma, ferma restando la necessità di modificare sul serio la Legge Fornero e tenere conto anche di lavoratori precoci, dei lavori usuranti, di chi non ha una regolarità contributiva (quando ci arrivano a quota 100 questi lavoratori? Mai, continueranno ad andare in pensione a 67 anni e rotti), anche un bambino capirebbe che quota 100 è solo un marchettone elettorale in vista delle Europee, né più né meno degli 80 € di Renzi.

 

Ibrahim e gli altri

Ibrahim è uno dei tanti che sopravvivono per strada nei dintorni della Stazione Tiburtina. Continua ad essere assistito dai volontari del Baobab. Ti colpisce perché con il freddo di questi giorni non indossa mai una giacca. Si presenta la mattina al massimo con un maglione, a volte in maglietta. E poi fa sempre il gesto del saluto, portarsi la mano al cuore dopo che la sua mano ha stretto l’altra mano. Come a voler salutare di continuo tutto il mondo che lo circonda. Lo vedi avvicinarsi tremante per il freddo a prendere la sua colazione, il suo bicchiere di tè o di latte caldo. Sempre rispettoso, sempre gentile.

Non conosco la sua storia. Myriam mi dice che ha problemi mentali, e che è difficile aiutarlo.

Ibrahim le prime volte prende la colazione e va via. Si allontana e resta nei paraggi continuando a battersi la mano sul cuore. Pian piano inizia a salutarmi, da lontano. Poi mi dà la mano, e ci battiamo la mano sul cuore. Oggi mi vede, ci salutiamo e poi mi tira a sé per abbracciarmi. Un gesto semplice che mi riempie il cuore. Devo dire grazie a Ibrahim, e a tutti gli altri che sto piano piano imparando a conoscere.

La bufala dei porti chiusi e l’incompetenza del governo italiano

Sostanzialmente non è mai stato emesso alcun provvedimento di chiusura dei porti. È questa una prerogativa del Ministro dei Trasporti, che può adottarlo in caso di rischi per la pubblica incolumità, per l’ordine pubblico, e figuratevi se quella ameba di Toninelli sarebbe mai capace di fare qualcosa del genere. Quindi una nave, qualsiasi nave, anche una nave di una ONG, potrebbe attraccare in un porto italiano. A quel punto potrebbe essere competenza del ministro degli interni vietare lo sbarco da una nave che ha attraccato, sempre per motivi di ordine pubblico, motivando la sua decisione. Rischiando magari un’accusa di abuso d’ufficio o non so di quale altro reato, nel caso i motivi di ordine pubblico posti alla base di un diniego allo sbarco fossero immotivati.
Quindi tra provvedimenti di chiusura dei porti inesistenti, si sta consumando la vicenda delle due navi che da giorni girano al largo di Malta, in attesa che l’Europa, tutta, vigliacca, tutta, Italia compresa, trovi una soluzione che valga per loro e per il futuro in merito alla ripartizione dei profughi che arrivano sui barconi.
E così mentre è in atto una difficile trattativa sulla pelle di 49 disgraziati e di altri 250 circa sbarcati a Malta nei giorni scorsi, una trattativa che vede comunque in campo il nostro presidente del consiglio che faticosamente raggiunge un compromesso con gli altri paesi sul ricollocamento delle famiglie (tutte intere) dei migranti, arriva quel genio di Di Maio che sostanzialmente sbugiarda Conte (Italia pronta ad accogliere donne e bambini, si dividono le famiglie), usa parole che fanno incazzare maltesi, tedeschi, francesi, olandesi, spagnoli (facciamo vedere noi cos’è l’umanità) e tutto torna in alto mare, letteralmente.
Se si voleva una ulteriore prova del pressapochismo, del dilettantismo, dell’incompetenza del governo tutto, eccovelo.

La CGIL e le sfide del futuro

 

In queste settimane, e fino all’assemblea conclusiva che si terrà a Bari dal 22 al 25 gennaio 2019,  si sta celebrando il XVIII congresso della CGIL . Alla fine del percorso congressuale la CGIL designerà il nuovo segretario generale, successore di Susanna Camusso.

Da iscritto alla FILT-CGIL, per la quale sono RSU e RLS presso la mia azienda, ho partecipato al congresso territoriale di Roma Sud e Castelli, e al congresso regionale di Roma e Lazio. Il mio primo congresso da sindacalista, dopo anni di congressi di partito. Una esperienza bellissima, che mi ha consentito di conoscere meglio, dal racconto dei lavoratori delegati, realtà lavorative diverse dalla mia e nelle quali emergono criticità devastanti e buone pratiche da esportare altrove. Un dibattito partecipato da donne, uomini, lavoratori, quadri sindacali, rappresentanti istituzionali che non hanno mancato di dare il loro contributo alla discussione.

Tra i diversi interventi ho apprezzato in particolar modo quello di lavoratrici che ancora oggi patiscono dell’assenza di una reale conciliazione vita-lavoro che costringe le donne a scegliere tra famiglia e lavoro, spesso a scapito del posto di lavoro stesso. Il gap di genere, drammaticamente presente a tutti i livelli, resta uno dei principali fattori di mancata crescita del nostro Paese.

Poi l’intervento un lavoratore immigrato che ha ricordato (ce n’è sempre e comunque bisogno) il valore del contributo alla crescita economica di un Paese dei lavoratori che vengono da altri Paesi.

E da ultimo mi ha fatto piacere ascoltare l’intervento di un compagno della mozione di minoranza che, pur da posizioni distanti rispetto a chi ha sostenuto il documento che ha raccolto la quasi totalità dei consensi degli iscritti, ha ribadito la volontà di restare, convintamente, in  CGIL. Uniti nelle differenze.

La prima riflessione che alcuni compagni hanno fatto durante i loro interventi è che ormai la CGIL rappresenta l’unica entità di sinistra capillarmente presente nel paese. L’unica forza di sinistra organizzata che presidia il territorio, i posti di lavoro, discute, dibatte, propone.

La CGIL, a partire dalla sua fondazione (1944), difende i lavoratori italiani. Lo ha fatto nel dopoguerra, negli anni del boom economico, nel ’68, durante gli anni di piombo, durante gli anni ’80, nel periodo della svalutazione della lira, all’entrata nell’Euro, dopo l’11 settembre, durante la peggiore crisi economica dopo quella del 1928 e fino ad oggi.

Lo fa bene, lo fa male, giudichino i lavoratori stessi. I congressi servono, oltre che a definire i gruppi dirigenti, ad analizzare errori, ad elaborare proposte, a preparare il futuro.

Di questo ha parlato la relazione del segretario della FILT-CGIL Roma e Lazio Eugenio Stanziale, riconfermato durante il congresso che si è svolto gli scorsi 30 e 31 ottobre.

 

Una relazione esaustiva, coraggiosa, a tratti severa e comunque di alto profilo. Una analisi che ha riguardato aspetti del momento storico e politico, nazionale e internazionale, e che, ovviamente, ha preso in considerazione la vita della CGIL, passata, presente e futura.

Ho apprezzato moltissimo la “pars destruens” del ragionamento del Segretario. Raramente, nelle parole del leader di un gruppo dirigente, ho assistito ad una autocritica così puntuale sugli errori fatti dalla nostra Organizzazione. La “pars costruens”, che si può sintetizzare nella necessità di cercare nuovi linguaggi per poter ambire a rappresentare al meglio i lavoratori nel prossimo futuro, riguarda noi tutti e da’ il solco entro il quale la CGIL dovrà muoversi.

Come spesso mi capita ho preferito ascoltare, capire, conoscere piuttosto che intervenire in prima persona al dibattito, ma a posteriori un mio piccolissimo contributo provo comunque a darlo.

Una delle parti della relazione del Segretario che mi ha maggiormente indotto alla riflessione è stata quella sul conflitto e le sue forme. Occorre trovare altre forme che non siano lo sciopero, è vero, ed è questa un sfida da affrontare fin da ora. Ma se è vero che il diritto allo sciopero è garantito dalla nostra Costituzione, è anche vero che l’assenza di una legge sulla rappresentanza, apre la strada a scioperi indetti da micro-sindacati (a volte al di là della ragionevolezza dello sciopero stesso in funzione degli obiettivi che si pone) che spesso finiscono per minare la validità dello strumento in sé, oltre a far incazzare notevolmente gli utenti.

Al di là di questo, però, resta la validità dello strumento e se è vero, come anche il Segretario ha rilevato, che anche l’azione della CGIL contro l’attuale governo sembra poco incisiva, allora credo che potrebbe essere il caso di indire, a brevissimo, uno sciopero generale (magari di mercoledì, così si tolgono da subito argomenti ai soliti detrattori, mi si passi la provocazione).

Non perché, come diceva non mi ricordo chi, scioperare è bello, ma perché motivi per scendere in piazza non ne mancano di certo. A partire dalla natura stessa del governo, omofobo, razzista, xenofobo, fascista, nazista. Basta pensare ai migranti, a Riace, a Lodi.

E se ciò è necessario perché ci sono principi sanciti dalla nostra Costituzione che non possono essere calpestati, diventa ancora più necessario se analizziamo la qualità dei provvedimenti economici che il Governo intende intraprendere.

Sforare il 2,4 % di deficit non è di per sé un tabù, ma ha un senso se l’extra deficit è dedicato ad investimenti in conoscenza, in ricerca scientifica, in borse di studio che rendano accessibile scuola e università anche ai soggetti economicamente più deboli, ad investimenti nella sanità pubblica che rendano possibile curarsi anche per chi non ha risorse economiche, ad azzerare le differenze di genere.

Se è dedicato a mettere in sicurezza le scuole, a combattere il dissesto idrogeologico e mettere in sicurezza il territorio, ad investire sul trasporto locale e sul trasporto su ferro, nell’ambito di un piano di mobilità nazionale che integri treno, aereo, autobus, bicicletta, automobile.

In questi mesi non abbiamo visto nulla di tutto ciò, anzi si inizia una battaglia contro le istituzioni Europee, il cui esito potrebbe essere catastrofico per l’Italia, in nome della flat tax che taglia le tasse ai ricchi per restituire ai ricchi, per premiare gli evasori fiscali, per elargire, con criteri ad oggi ignoti, un reddito di cittadinanza che umilia i poveri, ritenuti incapaci di destinare in maniera virtuosa le somme elargite a seconda delle proprie necessità tanto da dover render conto della moralità delle proprie spese e da essere costretti a spendere in determinati negozi e non in altri.

Assistenzialismo, paternalismo, moralismo, incentivi alla delinquenza e all’evasione fiscale, aumento delle diseguaglianze.

Questo ci riserva il governo del cambiamento.

Nulla per il lavoro, la più grande emergenza del Paese insieme alla criminalità organizzata, altro che immigrazione.

E del resto il buon giorno si era già visto con il cosiddetto decreto dignità, che aveva sostanzialmente avallato la logica perversa del jobs-act, limitandosi a limare qualche aspetto marginale, lunghezza dei contratti, indennizzi per il licenziamento, clausole contrattuali e niente conteneva per ripristinare il sacrosanto diritto di mantenere il proprio posto di lavoro quando si è licenziati senza giusta causa. Perché i lavoratori li vogliono anche loro così, muti e sottomessi, senza diritti, pena il licenziamento e la dignità monetizzata con poche migliaia di euro.

Sono mesi difficili, e tutto potrebbe ancora di più precipitare all’esito delle prossime elezioni europee, vero obiettivo dell’attuale governo che pur di racimolare voti e mettere in discussione l’intero impianto di civile convivenza faticosamente raggiunto nel nostro continente, seppur con  i suoi evidenti limiti mostrati in questi anni, liscia il pelo agli istinti più biechi degli italiani ed elargisce mance elettorali che rischiano di minare definitivamente i conti pubblici del nostro paese. Il tutto mentre nel mondo appare evidente la volontà dei satrapi vecchi i nuovi (Putin, Trump,  e recentissimamente Bolsonaro), ai quali il governo italiano non manca di far arrivare l propria stima ed amicizia, di distruggere l’Europa per rafforzare le mire egemoniche delle vecchie e nuove potenze economiche.

La CGIL ha l’obbligo di mostrare una strada alternativa ai lavoratori che miri a togliere armi al populismo, al sovranismo, tentazione che pure trova proseliti in settori della sinistra italiana, al nazionalismo e di proporre al Paese, nelle piazze, nei luoghi di lavoro di batterci insieme affinché le istituzioni europee siano rese trasparenti, democratiche e responsabili verso i cittadini dell’unione. Non mancano proposte in questo senso, su tutte quelle che sta portando avanti con il suo movimento transnazionale Yanis Varoufakis.

Sempre parlando di conflitto, gli scioperi, le manifestazioni, servono non solo a rendere evidente, appunto, il conflitto stesso ma anche a ricucire, consolidare, costruire rapporti con pezzi di società con le quali si riesce difficilmente a dialogare.

In un intervento ascoltato durante il dibattito una compagna poneva l’attenzione al mondo della scuola e alla necessità di parlare con gli studenti. In questi giorni alcune scuole romane sono in fermento, altre ne seguiranno e credo che sia indispensabile un dialogo con gli studenti, i lavoratori di domani ai quali anche la FILT CGIL di Roma e Lazio si è rivolta per capire cosa sia, per le nuove generazioni, il lavoro. Vi riporto di seguito la “piattaforma” del Liceo Virgilio, che presenta una pressoché totale identità di analisi rispetto alle rivendicazioni della CGIL.

“Virgilio occupato.

Ieri noi studenti del Liceo Virgilio abbiamo deciso di occupare il nostro istituto aderendo alla piattaforma politica cittadina che ha visto nell’occupazione del Liceo Mamiani di martedì il suo primo atto. Se da una parte qualcuno dirà che è la solita pantomima che propiniamo ogni anno, il cui scopo è quello di perdere giorni di scuola, al contrario, rispondiamo che non si tratta di questo, ma di una lotta politica, compito che da sempre avrebbe dovuto avere questa forma di protesta.  Analizzate e comprese le circostanze attuali in cui si trova il nostro paese, insieme agli studenti di altre scuole romane, è nata la volontà di contestare e protestare contro le politiche dell’attuale governo. Abbiamo deciso di opporci con forza a chi ha costruito la propria carriera  politica su xenofobia, razzismo, sessismo, omofobia, di contestare un esecutivo che non rispetta né noi né i diritti umani né la Costituzione sulla quale il nostro paese è fondato. Allo stesso tempo, ci discostiamo in ogni modo dalla sinistra dei passati governi, quella stessa sinistra che ha favorito la precarizzazione del lavoro, che ha svilito la scuola pubblica con tagli alla didattica e all’edilizia e che ha promulgato la riforma della Buona Scuola. Una “sinistra” rappresentata da criminali come l’ex Ministro degli Interni Minniti, che ha causato la morte di migliaia di esseri umani in mare.  Ad oggi, però, questa protesta è diretta contro il governo Salvini-Di Maio, inaccettabile sotto ogni punto di vista. Il gravoso incremento di aggressioni ai danni degli stranieri in Italia non può essere tollerato.  Gli sgomberi delle occupazioni abitative, partiti con un’operazione a Tor Cervara il 7 settembre, hanno lasciato sulla strada centinaia di persone in condizioni tragiche, come nell’episodio di Villa Gordiani del 27 settembre. La proposta di abolizione della legge Mancino avanzata dal Ministro per le politiche per la famiglia, Fontana, è uno dei segni più evidenti della tendenza fascista del governo, confermata anche dalle dichiarazioni del Ministro degli Interni. Più di una volta la Lega è scesa in piazza al fianco di CasaPound che, come è noto, occupa diversi stabili da decenni, e che, al contrario delle occupazioni gestite da forze antifasciste e dai movimenti per la casa, non ha certo da temere sgomberi da questo governo, come ha dimostrato quanto accaduto in Via Napoleone III la settimana scorsa. E’ preoccupante la proposta di equipaggiare la polizia di taser e ancor di più la volontà di abolire il reato di tortura, volontà partita da chi sembra aver voluto dimenticare le vittime degli abusi in divisa e dei morti di Stato. Altrettanto drammatico è lo stanziamento di 2.5 milioni di euro per il decreto “Scuole Sicure”, fondi che avrebbero potuto essere destinati all’edilizia scolastica e che non elimineranno il dilagante problema di spaccio all’interno delle scuole.  Il problema della droga si risolve con studenti consapevoli ed informati, colmando il vuoto sociale, non con la repressione.  Il Virgilio protesta contro il nazionalismo di questo governo e contro il suo emblematico slogan: “Prima gli Italiani” che si accompagna ad una propaganda che strumentalizza tragedie e che crea una lotta fra gli ultimi. Non pretendiamo di rovesciare l’ordine costituito solo con la nostra mobilitazione, ma sentiamo la responsabilità di rendere evidente, in maniera incisiva, il nostro dissenso riguardo tutto questo. In questi giorni fra le scuole si sta elaborando un manifesto comune che porti avanti le nostre idee e possa riunire gli studenti in un fronte oppositivo unito. Non ci stiamo schierando contro il corpo docenti né la presidenza, il nostro dissenso è rivolto a chi governa.  Oggi il Virgilio occupa perché questo non è il nostro governo, non è il nostro cambiamento e non è l’Italia in cui vogliamo crescere!”

Se conflitto dovrà essere, la CGIL non può che stare a fianco degli studenti in lotta.

Tra gli interventi che si sono succeduti durante il dibattito congressuale devo dire che pochissimi sono stati quelli che hanno fatto cenno al dramma della sicurezza sul lavoro, vera emergenza nazionale. Un dramma noto, che i lavoratori conoscono a tal punto da ritenere, come dire, scontato che se ne debba avere a che fare quotidianamente. E forse anche da ciò deriva una sorta di ritrosia nel parlarne. Non so.

Davanti alla strage continua alla quale assistiamo inermi ogni giorno e che coinvolge ogni settore di attività, dall’edilizia agli uffici, dalle fabbriche alle strade, dalle forze dell’ordine agli studenti, davanti all’ipocrisia del termine “morti bianche” utilizzato per catalogare morti che invece sono nere come di più non potrebbero essere, quale cosa più efficace di una enorme, massiccia, mobilitazione nazionale di tutti, tutti, e ribadisco tutti i lavoratori? Sarà che per lavoro mi occupo proprio di sicurezza, soprattutto nei cantieri, ma credo cha anche questo potrebbe essere un buon motivo di conflitto per poter chiedere più risorse agli ispettorati del lavoro, alle ASL, maggiori controlli sulla formazione di datori di lavoro, dirigenti, preposti, lavoratori, piena attuazione di alcune previsioni del D.Lgs. 81/08, tipo la patente a punti delle imprese.

Infine, mi preme dare un modestissimo contributo anche su un altro argomento al quale ha fatto rifermento il Segretario nella sua relazione, ossia i contratti e, in particolar modo, i premi di risultato e welfare aziendale introdotti dall’accordo del 14 luglio 2016. Mi si permetta di farlo utilizzando le parole di Marta Fana, molto migliori delle mie, e del suo libro “Non è lavoro, è sfruttamento”.

“… La destrutturazione del CCNL e la sua progressiva derogabilità poggiano anche su altri strumenti, non necessariamente esterni: ad esempio l’utilizzo sempre più estensivo del welfare aziendale, oppure le defiscalizzazione dei premi aziendali…

Ancora una volta si afferma l’idea che il peso dell’adattamento, e perché no, dei sacrifici, debba ricadere unicamente sui lavoratori. Il lavoro da costo fisso si fa sempre più variabile, dal momento che pezzi sempre più consistenti sono determinati dagli indici di produttività ed elargiti sotto forma di premi o di welfare aziendali. Poiché molte delle voci variabili possono essere escluse dal calcolo della pensione, l’abbattimento dei diritti opera non soltanto nel presente, ma anche nel futuro. Soprattutto non si capisce perché i lavoratori dovrebbero cedere parte del proprio diritto alla retribuzione e ai suoi aumenti, che rientrano nella sfera del rapporto di lavoro, in cambio del diritto al welfare, che invece è parte integrante dei diritti di un cittadino in quanto tale…

Non bisognerebbe stancarsi di affermare che la retribuzione e il diritto a un salario dignitoso non sono un regalo, una concessione da elargire ai lavoratori se si comportano come chiede il padrone, ma il sacrosanto diritto materiale al processo di vendita della forza produttiva da parte dei lavoratori stessi, Infine, la logica dei premi aziendali individualizza i rapporti di lavoro creando competizione tra i lavoratori, mettendoli gli uni contro gli altri; vince che lavora di più, non chi mette in discussione le scelte dell’azienda, chi si piega senza tentennamenti ai nuovi orari. In realtà però chi vince è solo ed esclusivamente l’azienda, i suoi profitti…

Per qualsiasi ragione, chi ha il potere di elargire o meno i premi può sempre ritrattare in modo soggettivo o oggettivo, un calo nelle vendite, un incidente, un investimento sbagliato che non produce gli effetti sperati possono compromettere il raggiungimento degli obiettivi per cui scattano i premi. Così la promessa viene meno, ma soprattutto tutto il peso del rischio imprenditoriale ricade e viene assorbito dai lavoratori. Gli stessi che hanno accettato di lavorare di più, più intensamente, nella speranza di ricevere qualcosa. Sarebbe il caso di ricominciare a pensare che quel che viene promesso qui, cioè il salario, è un diritto e non un favore…

Sul piano generale, il ricorso al welfare aziendale come forma di remunerazione ha a che fare con il ruolo dello Stato e della sua funzione democratica nel definire e soddisfare quei diritti che dovremmo considerare non già di cittadinanza, ma proprio universali, quali la casa, la sanità, la pensione, la cura delle persone e l’istruzione, che prescindono dallo status di lavoratore. Da un lato, infatti, in un sistema basato sulla fiscalità generale, cioè sulle tasse versate dai cittadini, principalmente lavoratori, una riduzione del gettito fornisce un assist ai tagli di bilancio per sanità, istruzione, trasporti, assistenza di vario genere. Dall’altro, delegando la definizione del welfare alle imprese, si compie una vera e propria privatizzazione dello stato sociale, lasciando, quindi, un diritto di cittadini in balìa dell’arbitrarietà e degli obiettivi delle imprese.  Se il rischio di un welfare sempre più ristretto e insufficiente ricade sull’intera collettività, esclusi dalla protezione sociale saranno proprio coloro che dovrebbero maggiormente beneficiarne, ovvero i soggetti più vulnerabili: precari, occupati e non, giovani in età scolare…in sintesi si avalla la crescita di povertà e disuguaglianze, rinnegando il principio di sussidiarietà. Un effetto regressivo che si riversa sull’intera società, generalizzando l’iniquità intrinseca della detassazione dei premi di produttività. Questa tendenza al welfare privatizzato non può lasciare i sindacati indifferenti o peggio essere avallata, proprio nel momento in cui sul fronte della contrattazione nel settore pubblico, a livello nazionale e territoriale, ci si batte per il rispetto di diritti minimi in un contesto già ampiamente esternalizzato, su cui è sempre più difficile rivendicare condizioni di lavoro degne, soprattutto per i lavoratori in appalto.

Basta? Alle imprese che acclamano il mercato con la miseria degli altri non basta mai.”

In definitiva, forse occorre aprire un dibattito su questi aspetti a due anni e passa dall’accordo interconfederale. Confrontandomi con un compagno della CGIL di lungo corso, quando ho detto vogliamo il pane e le rose, mi ha invitato a considerare i tempi, e a portare a casa prima il pane. Si, ma io le rose le voglio lo stesso.

Mi fermo, e nel ringraziare i pochi affezionatissimi che arriveranno alla fine di questo articolo, auguro ai compagni della CGIL il meglio.

W la CGIL!

p.s. (al di là di tifoserie e promettendo una analisi un po’ più approfondita, dico che Maurizio Landini sarebbe un ottimo segretario generale della CGIL)